00 14/02/2013 15:33
tratto dal "Toxofilus" (1545) di Roger Ascham:

"Il motivo per il quale nessuno finora ha scritto un libro sul tiro con l'arco […] credo che sia il seguente: coloro che sono più esperti nel tiro e che lo conoscono bene, non sono istruiti; coloro che sono istruiti, invece, sono poco esperti nel tiro, e sono ignoranti in tale campo, in tal modo pochi sono stati finora in grado di scrivere su questo argomento.

Tra i cittadini romani (qui inteso come bizantini), che superavano tutti gli altri in virtù, nobiltà e potenza, una scarsa menzione è fatta del tiro con l'arco, non perché sia stato poco usato tra loro, ma piuttosto perché esso era così necessario e comune, che sarebbe stato ritenuto cosa inutile o superflua per ognuno; così come uno che descriva un grande banchetto […] non reputi importante nominare il pane, sebbene esso sia l'ingrediente più comune e necessario."


I romani (sta volta "de Roma")si accorsero a loro spese delle potenzialità dell'arma e della inadeguatezza della vecchia concezione della legione in quella che viene giustamente ricordata come la prima disfatta dell'impero romano, quella di Crasso a Carre (53 a. C.) contro i Parti, veri “inventori” dell'arco "moderno". In quell'occasione si riporta che i legionari vennero letteralmente inchiodati al suolo dalle frecce della cavalleria catafratta (corazzata), abili arcieri sia in fase offensiva che difensiva. Ad un'analisi approfondita non sfuggirà poi che la tattica dei Parti verrà imitata e perfezionata dai Romani, ma mantenuta nei tratti essenziali pressoché identica.
Scrive Plutarco in proposito:
"I Parti avevano archi potenti e grandi, curvi in modo da scagliare la freccia con impeto, e i colpi sibilavano con inaudita violenza […]. I Parti scagliano dardi anche in fuga e lo sanno fare meglio di qualunque altro popolo, dopo gli Sciti […]. Le frecce conficcate nelle membra si spezzavano dentro le ferite […]. Quando Publio esortò i Romani a lanciarsi sui catafratti, essi gli mostrarono le mani inchiodate agli scudi, e i piedi confitti al suolo da una freccia che li passava da parte a parte."
A tale inadeguatezza si cercò di sopperire con la creazione di speciali corpi ausiliari (auxilia), arruolati in Tracia e nelle province orientali, tra cui spiccavano le formazioni di arcieri a piedi e a cavallo (equites sagittarii). Questo fu il primo passo di un processo che vide gli imperatori e i generali susseguirsi nel tentativo di “modernizzare” (o più che altro adattare) l'esercito romano alla nuova prassi bellica, contro cui si erano tristemente scontrati.
Tale scelta si volse inevitabilmente verso un perfezionamento delle tecniche d'arco da sfruttare in battaglia: gli strateghi bizantini fondarono definitivamente la forza delle loro armi sulla cavalleria sagittaria reclutata fra le genti dell'impero.
La consacrazione ufficiale si ebbe sotto il regno di Giustiniano, dove grazie alle guerre di riconquista, l'impero di Costantinopoli raggiunse la sua massima espansione territoriale. Nel frattempo le truppe venivano progressivamente addestrate all'uso dell'arco, tanto che, alla fine, il semplice fante poteva diventare un esperto arciere a seconda delle necessità. I Bizantini mutuarono dai Persiani la cavalleria catafratta, mentre dagli Unni e dagli Avari l'impiego dell'arco composito e le tecniche di tiro dalla sella. In questo, le popolazioni citate erano avvezzi in virtù dell'invenzione della staffa, strumento sconosciuto al mondo greco-romano, che consentiva all'arciere di mantenersi ben saldo in sella e di tirare anche in sella al cavallo lanciato al galoppo. Il connubio arco-cavallo dei popoli nomadi divenne l'arma per eccellenza dell'esercito bizantino. Anche gli arcieri appiedati svolsero comunque un ruolo importante nell'apparato bellico di Bisanzio: nella battaglia di Busta Gallorum (Gualdo Tadino), ad esempio, la cavalleria gota fu attirata in un sacca, circondata da 4000 fanti, che deposero le lance per imbracciare gli archi, e decimata dalle frecce.
Gli eserciti di Belisario prima e Narsete poi, ebbero la meglio non solo sul fronte occidentale, tradizionalmente meno avvezzo all'uso dell'arco, ma anche sul fronte orientale contro i Persiani, i cui arcieri erano considerati i più forti al mondo in quanto a rapidità di tiro, ma il cui limite, come riportato da Procopio, era di essere dotati di archi meno potenti rispetto a quelli sciti adottati dai romani.
Alla fase di addestramento per un uso corretto e micidiale dell'arco veniva generalmente dedicato molto tempo, che variava a seconda del reparto di appartenenza. E' risaputo che l'esercito regolare obbligava il soldato a impratichirsi con esercizi giornalieri nell'utilizzo di tutte le armi, compreso, ovviamente, anche l'arco; è tuttavia tra i bucellarii che si riscontra il periodo di tempo più lungo di esercizio costante dedicato all'uso di quest'arma, che si stima sui due-tre anni, tale da consentire quell'abilità nel suo impiego che è tipico dell'esercito bizantino, ovvero lo scopo di fare del soldato non solo un abile arciere ma anche un abile arciere a cavallo.


Papa Innocenzo II, durante il Concilio Laterano II del 1139, la bandì in quanto arma "ignobile" poiché permetteva anche ad un villano di uccidere senza sforzo e senza onore un nobile cavaliere.

La storia della balestra e del suo rapporto con l'arco ricalca inoltre il rapporto che vi sarà in seguito tra le armi da fuoco e l'arco.



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Κωνσταντίνος ΙΑ’ Δραγάσης Παλαιολόγος,
Xρoνoκράτoρ και Koσμoκράτoρ
Ελέω Θεού Βασιλευς και Αυτοκράτορ των Ρωμαίων.





"Ci sono quattro grandi cause per cui vale la pena di morire: la Fede, la Patria, la Famiglia ed il Basileus. Ora voi dovete essere pronti a sacrificare la propria vita per queste cose, come d'altronde anch'io sono pronto al sacrifico della mia stessa vita.
So che l'ora è giunta, che il nemico della nostra fede ci minaccia con ogni mezzo...Affido a voi, al vostro valore, questa splendida e celebre città, patria nostra, regina d'ogni altra.
Miei signori, miei fratelli, miei figli, l'ultimo onore dei Cristiani è nelle nostre mani."

"Ed allora questo principe, degno dell'immortalità, si tolse le insegne imperiali e le gettò via e, come se fosse un semplice privato, con la spada in pugno si gettò nella mischia. Mentre combatteva valorosamente per non morire invendicato, fu infine ucciso e confuse il proprio corpo regale con le rovine della città e la caduta del suo regno.
Il mio signore e imperatore, di felice memoria, il signore Costantino, cadde ucciso, mentre io mi trovavo in quel momento non vicino a lui, ma in altra parte della città, per ordine suo, per compiervi un'ispezione: ahimè ahimè!."

"La sede dell'Impero Romano è Costantinopoli e colui che è e rimane Imperatore dei Romani è anche l'Imperatore di tutta la Terra."

"Re, io mi desterò dal mio sonno marmoreo,
E dal mio sepolcro mistico io ritornerò
Per spalancare la murata porta d'Oro;
E, vittorioso sopra i Califfi e gli Zar,
Dopo averli ricacciati oltre l'Albero della Mela Rossa,
Cercherò riposo sui miei antichi confini."

"Un Costantino la fondò, un Costantino la perse ed un Costantino la riprenderà”