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Campagna con lo Stato Pontificio

Ultimo Aggiornamento: 13/10/2011 09:57
20/09/2011 11:35
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Tribunus Angusticlavius
Pontificatus Eugenii V (1473-1489)


il Cardinale Giovanni Aldobrandini, a 51 anni, viene eletto Papa nell'agosto del 1473 con il nome di Eugenio V. Giovanni è un religioso che ha seguito una lunga carriera ecclesiastica partendo dall'ordine carmelitano. Subito la Curia lo circonda di consiglieri esperti e senza scrupoli che gli mostrano tutti i mezzi crudeli e brutali che vengono utilizzati ormai da anni per mantenere la coesione interna dello Stato Pontificio. Ormai ogni possibilità di avere un pontefice non traviato da consiglieri maligni è perduta.
Il 1473 e il 1474 trascorrono con un grande ammodernamento dello Stato Pontificio: in tutti i territori vengono edificate nuove opere e si cerca di incrementare soprattutto l'attività culturale. A seguito della caduta di Costantinopoli molti Greci trovano rifugio in Italia e questo contribuisce notevolmente a far riscoprire la lingua e la cultura greca all'Europa occidentale. Roma è in piena espansione e con lei anche le maggiori città dello Stato Pontificio Firenze, Bologna, Ferrara, Siena, Capua, Viterbo e Fermo. Dopo le dure guerre si rilancia l'economia, si combatte l'eresia e i vassalli ribelli. La Toscana diventa un luogo di intensi scambi commerciali e si costruiscono numerosi porti: pian piano la regione si risolleva dopo le devastazioni degli ultimi anni. L'Emilia e la Romagna diventano invece un'unica grande piazzaforte militare. Vengono costruite molte caserme e soprattutto fonderie: i Ferraresi infatti educano i Romani sull'utilizzo dei cannoni, Ferrara ha infatti una grande fonderia e una tradizione nell'uso dell'artiglieria molto più avanzata di quella degli altri stati italiani. In campo amministrativo lo Stato Pontificio consente inoltre di mantenere cariche e strutture amministrative alle maggiori città conquistate, e questo aumenta la benevolenza nei confronti di Roma, nonostante la perdita della libertà.

Mentre si rilancia l'economia, sembra essere giunto il momento per una resa dei conti con il Regno di Napoli. Nel 1475 viene finalmente vinta con un gran numero di perdite la crociata a Ragusa, quando il re di Croazia riesce a guidare vittoriosamente l'assedio contro l'armata turca in difesa della città: poco dopo l'evento Eugenio V scomunica il re di Napoli Giovanni I di Lorena per aver continutato la guerra contro Taranto e non essere stato capace di ottenere un ruolo dominante nella scorsa crociata e di non aver preso Ragusa, una scusa, e Giovanni la comprende bene. Roma è interessata alla ricchissima Napoli. Il "ragno universale", re Luigi XI di Francia, comprende bene anche lui le perplessità degli Angiò.
Nel 1475 gli Svizzeri riescono a conquistare Ivrea e Torino ai Savoia! Tuttavia la casata savoiarda è fortemente determinata a resistere e comincia la sua riscossa.

Nel 1476 riscoppia la guerra tra Milano e Venezia: Mantova appoggia i Milanesi e si inimica Venezia. Nel frattempo Eugenio V da ordine ai generali Domenico Orsini, Marco Condulmer, Abbate de Papa e Accatto della Rovere, di reclutare dei nuovi eserciti e di spostarsi verso il confine meridionale con il Regno di Napoli. Pare che la guerra sia molto vicina. I 4 generali ubbidiscono agli ordini del Papa.

Nel 1477 dopo la sconfitta di Ragusa, i soldati dell'Impero Ottomano devastano Croazia, Slovenia e la Cariniza degli Asburgo: successivamente entrano in Italia varcando l'Isonzo e giungendo fino al Piave. Il 5 gennaio avviene la battaglia di Nancy: Carlo il Temerario viene ucciso e la Borgogna diventa parte della Francia, dopo tanti anni di guerra, ecco la vittoria francese. Nonostante questi eventi infausti, Eugenio V da ordine ai suoi generali di attaccare il Regno di Napoli.
Il ventunenne Accatto della Rovere muove con la sua armata di tiratori veterani da 1990 uomini verso Pescara passando il fiume Vomano. Nei pressi di Pescara è stanziato un esercito angioino costituito da 2230 uomini: il comandante francese, dopo aver ricevuto la notizia dell'arrivo dell'esercito papale che sta già devastando le campagne, da ordine di marciare verso di esso. Il 19 Aprile, presso Città Sant'Angelo, le truppe papali ed angioine si incontrano. Accatto della Rovere è un giovane coraggioso, ma non ha le grandi qualità richieste ad un generale in un simile frangente: l'esercito francese è molto numeroso e ben armato, un esercito costituito prevalentemente da tiratori, seppur veterani, avrà difficoltà a sconfiggerlo. La battaglia è sanguinosissima, probabilmente uno dei più grandi massacri a memoria d'uomo: le truppe napoletane, salendo il colle sul quale è schierato l'esercito nemico, si lanciano sulle schiere pontificie con grande impetp. Come sempre i papali bersagliano in continuazione le linee nemiche ed i morti si contano a centinaia. Accatto riesce a tenere il campo, ma compie un grave errore mandando troppo avanti il grosso dell'esercito prima di aver annientato buona parte di quello nemico. La cavalleria di baroni napoletani compie numerose cariche e uccide molti veterani papali. Lo stesso Accatto rischia di morire più volte, ma viene protetto paternamente dai suoi veterani che gli fanno scudo con i loro corpi. La vittoria va allo Stato Pontificio, ma l'esercito del della Rovere non sarà più in grado di ingaggiare altre battaglie, ne condurre assalti in futuri assedi: 1320 soldati pontifici rimangono sul campo, ed oltre 2000 angioini. Alcuni prigionieri napoletani vengono riscattati e inviati a Pescara. Il malconcio esercito di Accatto marcia verso Pesacara e la pone sotto assedio, con l'intenzione di prenderla per fame. La guarnigione angioina non può fare altro che attendere rinforzi, essendo anch'essa esigua.

Battaglia di Città Sant'Angelo, il campo di battaglia



Nel frattempo il quarantacinquenne Marco Condulmer, con molti cannoni moderni nuovi di zecca, pone sotto assedio ed espugna la temuta forteza di L'Aquila, una delle azioni più incredibili di tutta la campagna. All'interno di essa vi è Giovanni I di Lorena, re di Napoli: questi viene ucciso dalla cavalleria pontificia senza alcuna pietà. Nessun angioino si aspettava lo schieramento di cannoni simili a quelli portati da Condulmer, i Grandiavoli estensi con copli dal peso di 34 kg ciascuno: queste armi rendono praticamente qualsiasi fortezza inutile se non contrastati adeguatamente. Le truppe a difesa di L'Aqulia combattono eroicamente ma sopraffatti da ogni lato e con il loro re morto, vengono sconfitte. La notizia del disastro e della morte del re giunge a Napoli causando paura e sconcerto. Per la brillante vittoria, a Condulmer viene data in sposa la giovanissima principessa romana Federica Altieri, di grande bellezza e onestà. Condulmer si sente apprezzato dal nuovo papa Eugenio V. Subito dopo le celebrazioni Condulmer marcia verso l'altra grande fortezza angioina di Chieti e la espugna, perdendo 80 cavalieri e massacrando la guarnigione di 400 uomini: in questo modo egli elimina una minaccia per le truppe di Accatto della Rovere impegnate a Pescara. Successivamente sempre lo stesso Condulmer massacra dei vassalli fedeli agli Angioini nelle valli abruzzesi.

Le mura di L'Aquila


Giovanni I di Lorena in combattimento


L'assedio di Chieti



Il fronte caldo della campagna viene lasciato a Domenico Orsini, per il grande valore dimostrato in Toscana. Questi giunge a Capua con il suo esercito e di li si dirige verso Aversa, contro un'armata napoletana di 1978 uomini. Le truppe dell'Orsini sono compste da milizia cittadina e poche unità d'elite, tuttavia hanno diversa artiglieria e un ottimo morale, anche grazie al loro comandante. Le truppe angioine attendono i Romani ai piedi di un colle dal quale si vede il mare, la giornata è assolata e calda. Per sconfiggere l'armata nemica, i soldati dell'Orsini devono lanciarsi su per la collina e tenervi il campo. L'Orsini non si scoraggia, così decide di cominciare un bombardamento sulla collina con i trabucchi e le bombarde. Le truppe angioine fanno scendere per il colle diversi tiratori che cominciano a colpire le truppe papali riuscendo ad incendiare un trabucco. L'Orsini da ordine alla cavalleria di distruggere i tiratori nemici e alla fanteria di salire il colle. Sotto una pioggia di frecce i cavalieri romani massacrano i tiratori napoletani, mentre il grosso della fanteria angioina comincia minacciosamente a scendere lungo la collina. Entrambe le armate, non essendo composte da soldati particolarmente qualificati bensì da milizie cittadine, si scompongono e ingaggiano combattimenti disordinati. Lungo tutta la collina papali e angioini si massacrano sotto una pioggia intensissima di frecce: i papali sono costretti, per terrorizzare i nemici, a far tirare i trabucchi in mezzo alla mischia senza fare distinzione tra amici e nemici. La battaglia è dura ma l'Orsini riesce con la sua cavalleria di mercenari a mandare in rotta gruppo per gruppo l'armata angioina. Alla fine della giornata la vittoria sarà romana, ma a costo di 621 soldati: i Napoletani perdono 1823 uomini. Domenico Orsini marcia quindi verso Napoli, sicuro di poterla prendere, ma i 1400 soldati napoletani al comando di Giovanni Gaggini Merlin Governatore di Napoli e Consigliere delle finanze napoletane, impediscono all'Orsini di approntare un assedio. Napoli appare una città inespugnabile.

La battaglia di Aversa



Nello stesso tempo, Abbate de Papa, vescovo di Benevento, marcia verso Foggia con il suo esercito di nobili cavalieri appiedati. A settembre, poco prima di raggiungere Foggia, Abbate viene aggredito da un esercito angioino di notevole potenza. La mattina del 2 settembre, 1785 soldati pontifici e 2600 soldati angioini comandati dal Principe Alberto Duca di Andria e Primo Consigliere del Regno di Napolo si danno battaglia nei pressi di Troia. La formazione papale è disposta su un pendio e può contare su artgileria, cavalleria e fanteria di professionisti; le truppe angioine sono composte per la maggior parte da miliziani, tiratori e catapulte provenienti da Foggia e Manfredonia.
Alle prime luci dell'alba i Napoletani avanzano contro le linee papali cercando di diminuirne la compattezza con i tiri di catapulta: le bombarde pontificie riescono a mettere fuori uso le macchine napoletane e a fare gravi danni contro la fanteria. Abbate interviene più volte con la sua cavalleria nella mischia per aiutare i nobili impegnati nello scontro contro le prime linee francesi arrivate contro di loro. I Napoletani continuano ad assaltare in gran numero, ma la qualità romana è ampiamente superiore al numero angioino. I cavalieri di Benevento fanno a pezzi le milizie napoletane con grande spargimento di sangue e senza arrestarsi di fronte a nulla. Artiglieria, tiratori, cavalleria e fanteria, congiunte, dimostrano tutta la loro potenza. I soldati angioini cominciano a fuggire dal campo falciati da frecce, colpi di bombarda e incalzati dalla cavalleria. La vittoria è molto grande poichè con questa armata i Romani riescono ad annientare l'ultimo esercito di grandi proporzioni in mano agli Angioini. Solo Napoli potrà causare dei gravi problemi ai Romani. Abbate de Papa marcia su Foggia e Troia poi mette sotto assedio Bovino, saccheggiando e uccidendo nelle campagne circostanti.

La battaglia di Troia, particolari




Il massacro di Bovino



Nel 1478 la campagna nel Regno di Napoli continua, e vengono massacrati gli ultimi scarsi contingenti francesi. A Bovino si consuma il massacro delle truppe napoletane che si erano asserragliate in città, le truppe di Abate de Papa li passano tutti a fil di spada. Successivamente sempre Abbate pone sotto assedio Manfredonia, rimasta praticamente sguarnita dopo le disastrorse sconfitte campali angioine e, dopo poche settimane, la espugna. Da qui vengono reclutati degli esperti arcieri pugliesi che saranno molto utili nel proseguimento della campagna. Condulmer invece marcia verso Termoli e la conquista, causando 1000 morti al nemico e perdendo 120 dei suoi soldati: come sempre le nuove artiglierie mostrano tutta la loro potenza e sono vitali nella presa della città: Condulmer si insedia a Termoli e riorganizza l'esercito, godendosi il mare e la sua giovane moglie, che lo ha raggiunto da L'Aquila. Nello stesso anno Eugenio V scomunica la Confederazione Svizzera causa dei reiterati attacchi contro i Savoia. I Turchi con delle soldataglie giungono fino in Veneto, la Serenissima invia subito delle truppe a contrastarli. A Giornico nel Canton Ticino le truppe svizzere sconfiggono l'esercito del duca di Milano, sanzionando la definitiva rinuncia dei milanesi al controllo della Val Leventina.

Nel 1479 cade Pescara, arrendendosi alle truppe di Accatto della Rovere dopo duri anni di assedio: la città viene saccheggiata. In Umbria scoppiano delle epidemie di peste che causando centinaia di morti. Eguenio V da disposizioni per cercare di arginare la piaga, ma la malattia si diffonde in fretta, e le morti piegano fortemente l'economia delle regione. Nel frattempo Domenico Orsini non riesce ad avvicinarsi a Napoli: le truppe francesi fanno veramente un ottimo lavoro per tenerlo lontano e salvaguardare la città. Nei pressi del Vesuvio egli riesce tuttavia a prendere di sorpresa e a distruggere un'armata francese di 500 uomini giunta in soccorso di Napoli via mare dalla Provenza. Giovanni Gaggini Merlin cerca in ogni modo di chiamare aiuti dalla Francia e trova poche difficoltà essendo la flotta pontificia pressocché inesistente. Venezia conclude la pace con l'Impero Ottomano perdendo tutti i propri possedimenti in Grecia e Scutari. Le soldataglie turche se ne vanno dal Veneto ma vengono intercettate da un'armata papale che le elminano non senza difficoltà. Nel frattempo Eugenio V diventa sempre più esperto nel mantenere il potere. Ogni personalità sgradita che passa per lo Stato Pontificio viene puntualmente assassinata: i mercanti romani godono di particolari "aiuti", che prevedono l'eliminazione fisica dei vari concorrenti più esperti. L'Inquisizione diventa sempre più inflessibile ed oppressiva, i processi si moltiplicano in tutta Italia e molti eretici finiscono bruciati sul rogo. Eugenio V diventa ben presto un temuto tiranno, a tutto beneficio della solidità dello Stato, nessuno osa opporglisi ed il popolo ne ha paura.

Battaglia di Termoli



Nel 1480 una poderosa flotta turca giunge per ordine del sultano Maometto II a Rodi per scacciarne i Cavalieri, i quali con forze ridottissime respingono tutti gli assalti e costringono gli assedianti ad una precipitosa ritirata. Tuttavia dopo poco tempo la flotta navale turca sferra per ordine del sultano un grande attacco all'Italia: le truppe turche sbarcano ad Otranto e la pongono sotto assedio. Il Principato di Taranto trema: il Duca di Calabria ha definitivamente scacciato gli Aragonesi da Reggio ed ha posto la stessa Taranto sotto assedio; da est arriva la minaccia turca. Eugenio V è preoccupato: egli vorrebbe intervenire contro i Turchi e i Calabresi ma finchè Napoli rimarrà in mano angioina non si potranno spostare le armate dalle zone di guerra. Eugenio rimprovera Domenico Orsini, il quale non può impegnarsi nell'assedio di Napoli finchè continueranno ad arrivare al nemico aiuti dalla Francia.

Nel 1481 Otranto viene saccheggiata ed abbandonata dagli Ottomani, che marciano verso Lecce. I Calabresi continuano a tenere Taranto sotto assedio, da terra e da mare, la situazione per i Tarantini è critica. Tuttavia il Monferrato, avendo acquisito numerosi porti nella guerra contro Genova ed essendo nemico dei Francesi, decide di inviare una flotta a bloccare il porto di Napoli. La città rimane senza approvvigionamenti. Domenico Orsini, pressato dal Papa e ritenendo la situazione favorevole, decide di assaltare Napoli. Lo scopo dell'Orsini è quello di danneggiare pesantemente le mura della città e di fare numerose vittime nella guarnigione napoletana: la presa della città è improbabile, ed un piano di ritirata è già stato studiato. Il 17 luglio le truppe pontificie giungono a Napoli in prossimità di Porta Capuana, cominciando a bersagliarla pesantemente con l'artiglieria. La giornata è soleggiata e gli Angioini osservano nell'aria limpida l'esercito pontificio dalle mura della maestosa città, il Golfo di Napoli si mostra in tutta la sua bellezza. Domenico Orsini fa avanzare i picchieri dentro le brecce e porta dei tiratori alle loro spalle per mantenere una certa copertura. Dalle torri napoletane vengono scagliate frecce, colpi di archibugio, pietre e qualsiasi altra cosa possa arrestare l'avanzata pontificia. Giovanni Gaggini Merlin assiste all'assalto alle spalle delle sue truppe. Le fortificazioni napoletane sono molto forti ma le milizie a loro difesa non sono a un livello di professionisti. Dopo una sanguinosa lotta i picchieri pontifici, ormai veterani di una guerra durata diversi anni, riescono a massacrare i primi soldati a difesa delle fortificazioni e a penetrare in città. Giovanni Gaggini Merlin ed il resto delle sue milizie li raggiungono subito bloccando le milizie romane per le vie di Napoli. Tra duelli e tiri di frecce, l'Orsini da ordine agli archibugieri di salire sui tetti dei palazzi e tirare dall'alto sulle schiere nemiche. La cavalleria di Gaggini Merlin causa molte vittime tra la cavalleria e i picchieri romani. Nel frattempo i trabucchi pontifici lanciano proiettili incendiari tutto attorno alla zona degli scontri, distruggendo numerose postazioni angioine e diffondendo il fuoco nella città. I combattimenti proseguono intensi durante tutta la giornata magna cum violentia, ma alla fine Giovanni Gaggini Merlin viene ucciso da un picchiere romano: le truppe angioine si ritrovano senza un capo, assaltate dalla cavalleria e dalla fanteria pontificie, non hanno più scampo. Alcuni dei soldati francesi e napoletani si arrendono subito alle milizie romane, altri combattono fino alla morte per proteggere la città così amata e importante al livello internazionale, finendo massacrati. A sera tutti i soldati angioini sono stati o uccisi o catturati. Napoli è caduta. Dal Golfo di Napoli la flotta monferrina fa tuonare numerose salve alla vista dei vessilli pontifici innalzati dagli uomini d'arme pontifici sulle torri del maestoso Maschio Angioino, simbolo di un potere straniero in Italia ormai scacciato. A Roma la notizia della presa di Napoli viene celebrata con enormi feste, i Francesi sono stati cacciati dall'Italia! Eugenio V si riconcilia con Domenico Orsini e lo fa ricoprire di titoli e di gloria. Mentre a Roma si festeggia, tuttavia Napoli viene saccheggiata senza pietà: migliaia di civili vengono sottoposti a gravi violenze, centinaia moriranno. Il sacco di Napoli frutterà 43.000 fiorini a Roma, una cifra esorbitante, degna della nobile, bella e prestigiosa città. In breve tutti gli ultimi ribelli del Regno vengono scovati e massacrati, i Francesi hanno perso ogni speranza di rimettere piede sul suolo napoletano. La Francia non dimenticherà mai questo affronto. Rimane solo una possibilità in vero, e cioè il Ducato di Calabria, rimasto in parte fedele agli Angioini.

La battaglia di Napoli



Nel 1482 Domenico Orsini, dopo aver sistemato tutte le cose a Napoli ed avervi lasciato delle milizie di guardia, si dirige nelle montagne verso Salerno, dominio del Ducato di Calabria. La città di mare viene raggiunta il 20 febbraio e posta sotto assedio. All'interno di Salerno c'è il Duca calabrese Roberto il Malevolo ( di 62 anni ), Conte di Lauria e circa 600 lancieri della milizia ben armati. L'esercito dell'Orsini è molto forte: oltre a bombarde e trabucchi, nell'armata sono presenti cavalieri professionisti, mercenari, balestrieri, picchieri, guardie papali, rotularii dell'Ordinanza napoletani e archibugieri. Le mura settentrionali di Salerno vengono forzate e distrutte e la fanteria romana irrompe nelle mura. Il Duca Roberto cerca di contrastare in ogni modo l'assalto romano ma finisce ucciso, insieme a tutta l'armata. Salerno viene occupata, saccheggiata e ben presidiata, sapendo che nelle città del Cilento ci sono molte truppe calabresi pronte ad intervenire.
La Francia, avendo perso ogni possibilità di tornare nei territori napoletani, visto il grande numero di soldati pontifici, decide di firmare una pace temporanea con il Papa. Eugenio V acconsente e i due popoli cessano le ostilità. Tuttavia ritorna un grande incubo: la Grande Lega viene riformata, e questa volta proprio su impulso del re di Francia. Dopo molti anni, i potentati del nord Italia vogliono sbarazzarsi di Venezia, per poter forse poi concentrare in seguito i loro sforzi contro lo Stato Pontificio. Venezia non sa cosa fare: il Papa ha appena dichiarato guerra ai Calabresi ed il conflitto si protrarrà per anni senza possibilità di disimpegnare contingenti dal fronte. Eugenio V chiede a Venezia di resistere e si accorge impotente di fronte alla Grande Lega. La Lega viene inizialmente composta dalla Francia, Milano, Mantova, i Savoia, la Confederazione Svizzera, Genova, Croazia e Monferrato ( nonostante quest'ultimo sia contro gli interessi francesi ). Contro tutti questi nemici sembrerebbe inutile schierarsi, pensa Eugenio V. Solo gli Asburgo rispetto alla prima coalizione rimangono fuori, ma sono pronti a marciare sui territori veneziani qualora questi dovessero ribellarsi all'autorità del Doge. L'obiettivo della Lega è prendere solamente la città di Venezia: eventualmente chi vorrà proseguirà la guerra. A Roma si teme la caduta di Venezia. Nel frattempo Marco Condulmer, dopo un meritato riposo a Termoli va a Manfredonia: qui raduna molti cavalieri, archibugieri e soprattutto gli esperti arcieri pugliesi, molto rinomati; ovviamente non si separa dai suoi potenti cannoni. Rimasto a Manfredonia per i preparativi, si dirige verso Tricarico, città attualmente in mano al Duca di Calabria. I Tarantini tirano un sospiro di sollievo: sebbene le armate turche da poco sbarcate in Puglia tengano Lecce sotto assedio, l'assedio calabrese di Taranto viene tolto immediatamente, lasciando la città ed il suo porto nuovamente libera. Condulmer tuttavia rimane così circondato da un immenso numero di armate calabresi presso Oppido Lucano: sapendo che i Calabresi faranno la prima mossa confidando nel numero, Condulmer si attesta in una posizione difensiva e allestisce gli accampamenti invernali.
Nello stesso anno viene dipinta La Primavera di Sandro Botticelli :).

La battaglia di Salerno



Nel gennaio del 1483, un'armata di 2500 Calabresi attacca Marco Condulmer e i suoi 1600 uomini. Condulmer riesce a vincere molto facilmente: i soldati nemici sono impacciati nei monti, egli possiede tiratori e artiglieria. I Calabresi vengono bersagliati di continuo e finiscono per andare tutti in rotta: il massacro calabrese è immenso, 2200 di loro vengono uccisi. La cavalleria di Condulmer perde 213 effettivi nell'affrontare la retroguardia nemica: la vittoria è notevole, ma molte armate calabresi continuano a circondare l'esercito pontificio e la perdita di così tanti cavalieri potrebbe costituire un problema in futuro per i pontifici. Eugenio V confida da Roma nel valore militare del comandante veneziano che per Roma ha già ottenuto tante vittorie in condizioni molto difficili.

Massacro calabrese presso Oppido Lucano



Nel frattempo Venezia viene posta sotto assedio da un'armata milanese e da una mantovana, la Grande Lega sembra determinata nel suo intento. Venezia soffre moltissimo dell'assedio. Un sicario pontificio riesce ad assassinare il comandante dell'armata milanese Marcello Sforza, ma l'assedio prosegue. A nulla valgono gli appelli di Eugenio V a far cessare le ostilità, anche la minaccia della scomunica sembra non fare paura a nessuno, la Lega è troppo forte.
A marzo i 1400 uomini di Condulmer vengono attaccati da un altro possente esercito calabrese guidato dal Conte di Tricarico Guido lo spietato, uno dei più grandi condottieri calabresi. L'esercito calabrese attacca da un passaggio diverso da quello dell'ultima volta, meno favorevole per l'altezza ma più ampio in larghezza: inoltre il Conte Guido schiera numerosi trabucchi e catapulte per colpire le truppe pontificie. La mattina del 28 marzo, le truppe di Condulmer vengono bersagliate da un fitto fuoco di proiettili incendiari ed egli da ordine di rispondere al fuoco, e fa distruggere quasi tutte le macchine del nemico. Le schiere romane sono difese dai prodi arcieri pugliesi che causano molte vittime tra i tiratori e la fanteria nemica a valle. Il Conte Guido sopraggiunge nella battaglia e con grande impeto lancia i suoi uomini contro le linee pontificie, ingaggiando un combattimento molto duro. Condulmer vede che i suoi uomini stanno soffrendo gravi perdite, così affianca con la cavalleria il lato destro dello schieramento nemico. I Calabresi si distinguono come ottimi combattenti, ma la ripida salita, il tiro nemico e l'aggiramento della cavalleria causano la rotta di numerosi reparti. I grandi pali di legno posti dagli arcieri pugliesi davanti allo schieramento pontificio frenano inoltre di molto l'impeto della cavalleria nemica. Il Conte Guido muore da prode nella mischia, come molti dei suoi uomini, e la battaglia è persa. Condulmer massacra nemici con la sua cavalleria quanto può fino a sera. La battaglia è vinta: muoiono 400 soldati pontifici e 1828 calabresi. Dopo questa vittoria Condulmer giunge a Tricarico e lascia che le truppe saccheggino la città: a Roma arriveranno 15.000 fiorini dopo il saccheggio.

La seconda battaglia di Oppido Lucano, il Conte Guido in primo piano, sullo sfondo le linee romane



In Calabria la nobiltà comincia a preoccuparsi. Domenico Orsini conquista Lauria con pochi sforzi ed anche qui i pontifici devastano la città: inoltre Accatto della Rovere sta marciando con molti soldati verso Rossano, attraverso la Lucania. Un assassino calabrese riesce ad uccidere il povero Accatto con una pugnalata alla schiena: quando le guardie pontificie scoprono l'accaduto l'assassino è già lontano: il povero giovane nobile genovese viene sepolto a Manfredonia. L'armata di Accatto tuttavia decide di proseguire anche senza la guida del comandante. Passando attraverso i monti, in luglio, l'armata pontificia giunge nei pressi di Rossano: una marcia apparentemente tranquilla. Tuttavia, giunto nella piana di Sibari, l'esercito pontificio viene fermato da un possente contingente calabrese, sceso da Rossano. Nella piana si affrontanto quindi 1350 soldati pontifici e1300 calabresi. Tra i ranghi calabresi si notano molti baroni del luogo armati di tutto punto e con grande esperienza in fatto di armi: i Romani possono contare su tiratori e qualche unità di nobili appiedati ben corazzata. La battaglia è un vero macello, per ore intere i combattimenti non smettono. La fanteria romana viene totalmente annientata e solo alcuni balestrieri continuano a tirare contro i baroni calabresi uccidendone a centinaia. Alla fine della giornata i Calabresi ottengono la vittoria, ma le perdite sono pesantissime, 1300 Romani e 1100 Calabresi sono morti nella piana. Rossano è piuttosto sguarnita adesso, quasi tutti i suoi difensori sono morti.

La strage nella piana di Sibari



Il 15 Agosto avviene un evento di importanza epocale: Venezia cade, espugnata dall'esercito mantovano. La pietà dei Mantovani è pressocché nulla, Venezia viene sterminata, depredata e distrutta. Il Doge e i suoi uomini riescono a riparare a terra, ma la Laguna è in mano alla Grande Lega. A nulla sono valsi gli aiuti pontifici e la flotta dell'Adriatico. La notizia fa il giro del mondo, gli stessi Turchi si rammaricano della caduta della propria rivale. La festa in tutti gli stati della Grande Lega è grande, tuttavia per molti dei suoi partecipanti è giunta l'ora di tornare a casa. I Milanesi in realtà rimangono delusi dagli sforzi contro Venezia, e i Mantovani diventano ai loro occhi non più dei fidi alleati ma degli avversari sempre più pericolosi. Le truppe veneziane non si danno tuttavia per vinte: subito si fanno piani per poter riconquistare la città, ma la coesione dello stato viene a diminuire a seguito della perdita della città. Eugenio V si rammarica enormemente.
A settembre Condulmer, distrutto dalla notizia della caduta della sua città natìa, si dirige verso Rossano ormai sguarnita e per la rabbia massacra la popolazione: egli riversa il dolore per la perdita della sua città sui sudditi e i soldati del Duca di Calabria. La stessa sorte tocca a Crotone: anche qui Condulmer sconfigge le truppe calabresi in campo aperto e marcia sulla città conquistandola. In breve tempo Marco diventa temuto da tutti i Calabresi ( ottenuto nel tratto caratteriale ;)).

La battaglia di Crotone


Contemporaneamente a questo evento, il 15 settembre, si consuma a Cosenza una delle sconfitte e delle perdite più grandi dello Stato Pontificio, ad opera del coraggio e della determinazione dei Calabresi a resistere contro il Papa. Nei primi di settembre Domenico Orsini, 55 anni, muove con i suoi 1900 armati contro Cosenza, la città meglio presidiata di tutta la Calabria. Scendendo dai colli ormai in vista della città, l'Orsini si trova di fronte un'armata nemica composta da oltre 2500 soldati. Il tempo è ottimo, il sole splende in cielo, sarà una calda giornata di battaglia. Il grande condottiero romano fa schierare le sue truppe in assetto difensivo su un colle: fanteria di nobili e di picchieri in prima linea, balestrieri in seconda, archibugieri in terza, artiglieria in quarta e cavalleria in quinta. Le truppe calabresi, guidate da Giacomo di Palermo e dal Conte Barnabò, dispongono di molte milizie cittadine, cavalleria e fanteria di baroni calabresi, cavalleria pesante, tiratori e trabucchi. La battaglia comincia con un fitto fuoco di artiglieria da entrambe le parti. I colpi sono durissimi e causano vittime in ambo gli schieramenti. Giacomo di Palermo da ordine alla fanteria di avanzare lungo la collina. I pontifici fanno piovere fuoco, frecce e piombo sulle milizie calabresi: ma queste non si demoralizzano, esse combattono per la vita delle loro mogli e dei loro figli: con un coraggio degno dei migliori nobili d'Europa, i cittadini di Cosenza si lanciano contro le schiere romane ingaggiando una lotta furibonda, sin dai primi momenti si nota l'estrema violenza degli scontri, violenza derivante dalla rabbia maturata dopo anni di sconfitte, fame e miseria. Tuttavia i nobili di Benevento nelle schiere pontificie sono molto più esperti e soprattutto corazzati, e fanno strage di miliziani calabresi: solo l'arrivo nella mischia dei più pesanti ed esperti baroni calabresi riesce a riequilibrare la situazione. Anche Giovanni di Palermo si lancia nella mischia con la sua cavalleria, rompendo i ranghi romani che fino ad allora avevano tenuto le linee. Domenico Orsini assiste alla mischia fino a che essa non giunge a coinvolgere la quinta linea, dopodichè si lancia nella lotta contro i baroni calabresi. I trabucchi romani hanno smesso di tirare perchè impegnati in combattimento. Il Conte Barnabò da ordine ai suoi uomini di assaltare la collina sul fianco sinistro dello schieramento romano. Mentre le truppe di Giacomo di Palermo vengono a fatica respinte lungo la collina, quelle del Conte Barnabò causano gravi danni allo schieramento romano, accerchiandolo. Nell'immensa confusione i trabucchi calabresi continuano alacremente a lanciare proiettili incendiari sulla mischia, incuranti delle vittime causate anche tra i loro stessi amici. La lotta è durissima, su ogni lato si combatte. Gli archibugieri romani, arretrati a causa della mischia, cercano di sparare sulla cavalleria del Conte Barnabò ma vengono raggiunti e massacrati. Domenico Orsini combatte con energia scacciando le ultime milizie di Giacomo di Palermo giù per il colle, egli non riesce perà ad evitare l'accerchiamento della sua armata. I nobili di Benevento continuano a mietere vittime senza riposo, notando però che per ogni uomo abbattuto ce n'è sempre un altro agguerrito pronto a combattere alle sue spalle. I balestrieri pontifici di Faenza, Gubbio, Spoleto e Massa sono costretti a combattere contro i baroni calabresi che, con le loro cotte di maglia ed elmi alla normanna, continuano a salire dal pianoro e a mettere in difficoltà i Romani. A intervalli regolari arrivano sulla mischia globi di fuoco che mandano in pezzi o in fiamme decine di uomini alla volta. Le urla di dolore dei feriti si levano da tutti gli angoli della mischia dove ogni forma di pietà umana sembra essere scomparsa. La situazione sta volgendo al peggio per i Romani: i cavalieri della condotta sono decimati, la fanteria è circondata, il morale irriducibile dei cavalieri di Benevento e dei rotularii dell'Ordinanza di Napoli regge, ma la battaglia appare già persa. Domenico Orsini scorge nella mischia Giacomo di Palermo e galoppa verso di lui, facendosi strada a colpi di spada tra i soldati nemici, i quali non riescono a frenare il suo impeto. Domenico ha perso tutta la sua guardia di cavalieri, tutti nobili romani veterani di cento battaglie, ormai morti nella polvere e nel sangue, egli è rimasto solo. Domenico raggiunge Giacomo e lo sfida a duello: il nobile siciliano accetta la sfida e due cominciano a combattere a cavallo con le spade, poco distanti dalla mischia. Giacomo è giovane e forte, ma ha raramente combattutto di persona; Domenico con il suo braccio ha tolto la vita a centinaia di uomini, tutti caduti sotto la sua forza e la sua brutalità. Giacomo cerca di dare un colpo dall'alto a Domenico, ma questi è più abile e con un colpo netto e preciso trafogge il cuore del giovane nobile siciliano. Domenico vede Giacomo cadere da cavallo nella polvere, con un gran fracasso. Il nobile siciliano ha giusto il tempo per guardare al cielo, chiedere perdono a Dio e muore. Domenico si guarda intorno: i suoi uomini stanno morendo sotto i colpi del nemico. Lui con il suo cavallo si può ancora salvare, ma cosa ne sarà di lui dopo in questo giorno così infausto? Cosa ne può essere di un generale vincitore di mille battaglie se egli abbandona i suoi uomini nel momento più solenne ed estremo? Domenico non ha dubbi. Se la sua anima verrà perdonata da Dio dopo aver tolto la vita a così tante persone, sarà solo per essere morto a fianco degli uomini che lo hanno servito a rischio della vita per così tanti anni. Domenico galoppa fino a portarsi in mezzo agli irriducibili cavalieri nobili beneventini, gridando loro di morire per l'onore delle loro casate, ma anche e soprattutto per la gloria di quella che un giorno diventerà, a suo avviso, l'Italia unita. I poveri cavalieri, stanchi, feriti, assaltati da ogni lato, lanciano un grido di battaglia che fa tremare nel profondo dell'anima tra i ranghi nemici il Conte Barnabò. Domenico alza la spada verso il cielo e lancia il suo grido di guerra: sprona il suo cavallo verso i baroni calabresi e ne uccide a decine: ferito più volte, viene infilzato alla schiena e disarcionato da un gruppo di miliziani cosentini, si schianta a terra con la pesante armatura, i nemici non badano più a lui e gli passano sopra incuranti. La lancia calabrese è entrata dalle reni ed esce dal petto: il dolore è immenso. Domenico osserva il cielo sopra di se: come per tanti suoi compagni e molti dei suoi nemici è giunto il momento di lasciare quel mondo. Domenico ricorda in un attimo tutti i campi di battaglia, tutti i volti degli uomini che ha ucciso, tutti i momenti di gioia e di dolore, di pace e di guerra, di amore e di odio. Le voci si confondono, una preghiera viene proferita con poco fiato, con il sapore del sangue, ma proveniente dal fondo del cuore; un velo cade sugli occhi di Domenico, e tutto per Domenico finisce. La battaglia viene perduta.
Alla fine della giornata solo 200 soldati pontifici riescono a a salvarsi dal macello: 1694 di loro sono morti, 1538 le perdite calabresi. Domenico Orsini, il più grande generale di Roma, è morto: con lui si chiude un capitolo importante della storia militare dello Stato Pontificio. La sconfitta è un colpo gravissimo per tutti i Romani: l'Orsini rappresentava per loro un nuovo console che, insieme a Condulmer, era riuscito a riportare Roma ai fasti di un tempo con i suoi brillanti trionfi. Nel dolore, molti comprendono però che per un generale il miglior modo per morire sia di falro sul campo di battaglia, con la spada in pugno, nel punto più folto della mischia. Condulmer ora si ritrova solo a condurre la guerra contro il Ducato di Calabria. Nello stesso anno muore a Roma Pietro Malatesta, uomo politico dello Stato Pontificio la cui vita è stata segnata da fortune e sfortune.

La battaglia di Cosenza




Duello tra Domenico Orsini e Giacomo di Palermo




La morte di Domenico Orsini



Nel 1484 Condulmer vendica la morte di Domenico Orsini. Partito da Rossano con un nuovo esercito, sconfigge i nemici presso Catanzaro e la conquista: nella battaglia, dominata dalle artiglierie, Condulmer rischia la vita, giacché un colpo di trabucco centra in pieno la sua guardia, egli si salva per miracolo. Successivamente Condulmer marcia verso Cosenza, dove trova le ultime truppe calabresi reduci dalla battaglia con l'orsini e le massacra con un assalto alla città degno dei più grandi strateghi, appoggiato come sempre dalla sua cavalleria. Il Ducato di Calabria cessa di esistere: il resto della Calabria si ribella ai Duchi. Solo Reggio e Mileto si oppongono alle truppe papali, ed esse verranno conquistate negli anni successivi, la popolazione di Reggio Calabria verrà sterminata, perchè molto tumultuosa: una macchia sull'onore dello Stato Pontificio. Tuttavia Condulmer ha vinto: la guerra è finita. A Roma Eugenio V si compiace della vittoria, promette al popolo anni di pace e di prosperità.

L'assalto di Cosenza da parte di Marco Condulmer



Gli anni tra il 1484 e il 1489 trascorrono a pacificare le terre appena annesse allo Stato Pontificio. La città ribelle di Potenza costitiuisce un obiettivo per Eugenio V: è presidiata da migliaia di soldati poco addestrati che fanno corpo intorno alla città. Eugenio V manda a Potenza un'armata di balestrieri veterani, che causa 3000 morti in una sola battaglia e che in seguito marcia sulla città. Il resto delle terre appena annesse a Roma viene epurato da briganti, ribelli ed eretici, grazie a molti nobili romani inviati sul posto. Condulmer partecipa attivamente alla "pacificazione" delle terre conquistate, e alla fine si stanzia a Salerno, decidendo di trascorrere li gli ultimi anni della sua vita. In Lucania l'eresia è molto radicata, così l'Inquisizione si installa permanentemente nella zona, insieme ad un nutrito gruppo di ecclesiastici. I Tarantini, liberati dal pericolo calabrese e francese, riescono a cacciare l'armata turca oltre il Canale di Otranto. Questi anni di pace rendono lo Stato Pontificio sempre più forte e potente. Si comincia ad avvertire un senso comune di "italianità", grazie anche alla tolleranza dimostrata dai papi nei confronti delle istituzioni politiche preesistenti alla conquista pontificia. L'arte e le tecniche fioriscono, Roma diventa a pieno titolo una delle corti europee più attive e potenti.
Il 10 ottobre 1489 il Papa Eugenio V muore di un grave male allo stomaco, dopo un pontificato lungo e foriero di gloria per la Chiesa: la sua crudeltà e tirannia non vengono dimenticate, ma molti nobili lodano il suo opearto per il pugno di ferro che ha consentito di mantenere il potere su un territorio così grande. Tutti confidano che il suo successore possa mantenere la pace nello Stato Pontificio.
[Modificato da Legio XIII gemina 21/09/2011 00:16]


« ... Urbem fecisti, quod prius orbis erat. »

Claudius Rutilius Namatianus, De Reditu suo, Liber I


« Aufklärung ist der Ausgang des Menschen aus seiner selbstverschuldeten Unmündigkeit. Unmündigkeit ist das Unvermögen, sich seines Verstandes ohne Leitung eines anderen zu bedienen. Selbstverschuldet ist diese Unmündigkeit, wenn die Ursache derselben nicht am Mangel des Verstandes, sondern der Entschließung und des Mutes liegt, sich seiner ohne Leitung eines andern zu bedienen. Sapere aude! Habe Mut, dich deines eigenen Verstandes zu bedienen! Ist also der Wahlspruch der Aufklärung. »

Immanuel Kant, Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung? 1784


« Pallida no ma più che neve bianca
che senza venti in un bel colle fiocchi,
parea posar come persona stanca:
quasi un dolce dormir ne' suo' belli occhi
sendo lo spirto già da lei diviso,
era quel che morir chiaman gli sciocchi:
Morte bella parea nel suo bel viso. »

Francesco Petrarca, I Trionfi, Triumphus Mortis, I, vv. 166-172


« Di loro ora ci rimane solo un ricordo flebile, ma ancora vivo: certo soffriamo ogni volta che lo strappiamo dal nostro cuore per comunicarlo agli altri. Ma lo facciamo ugualmente perchè solo così il loro sacrificio non andrà mai perduto. »

Alpino dell'ARMIR sui compagni caduti


« Sfiòrano l'onde nere nella fitta oscurità, dalle torrette fiere ogni sguardo attento stà! Taciti ed invisibili, partono i sommergibili! Cuori e motori d'assaltatori contro l'immensità! Andar pel vasto mar ridendo in faccia a Monna Morte ed al destino! Colpir e seppelir ogni nemico che s'incontra sul cammino! E' così che vive il marinar nel profondo cuor del sonante mar! Del nemico e dell'avversità se ne infischia perchè sa che vincerà!... »

Canzone dei sommergibilisti italiani nella seconda guerra mondiale

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