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Resoconti campagne & Battaglie importanti

Ultimo Aggiornamento: 01/02/2021 18:58
09/03/2007 09:14
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Praefectus Fabrum
Guerra in Asia
La perdita di Creta aveva umiliato il basileus che meditava vendetta. Trascorsero due anni in attesa del momento favorevole, questo arrivò in un giorno di estate del 1098, una flotta siciliana mise il blocco navale al porto di Naupatto, era quello che l'Impero aspettava. Il generale Michele (insieme a Costantino di Chio)salpò da Atene con un esercito di sette unità tra fanti e arcieri verso Creta (da un anno si sapeva che l'isola era poco difesa), dopo una breve traversata gli imperiali misero piede presso Iraklion e la posero d'assedio, la flotta iniziò a pattugliare il mare per fermare eventuali flotte di soccorso normanne.

Contemporaneamente un'armata veneziana giunse in Epiro e pose sotto assedio Durazzo, ma il castello era pronto a riceverli.

Nell'inverno del 1098 Michele diede ordine di assalire Iraklion, le mura furono velocemente prese, il piccolo presidio siciliano fu trovato che presidiava il centro cittadino, mentre gli archi uccidevano a distanza, i due gnerali aggirarono il fronte nemico dalle vie laterali,intanto i lanceri caricarono di fronte, il capitano siciliano fu ucciso, il presidio si arrese; dopo alcuni anni Creta era di nuovo dell'Impero.

Le cose andavano bene per i Romei, pure Durazzo respinse facilmente i Veneziani causando una grnde strage, Eustazio di copriva di gloria sempre più grande.

Sistemate le cose a Creta, la flotta bloccò le navi di soccorso siciliane mettendole in fuga, la principessa Matilda ritornò a Palazzo e richiese una nuova tregua che fu accordata dietro pagamento di due rate di 1600 fiorini ciascuna.

Risolto il problema siciliano, Costantino di Chio salpò da Creta con alcuni mercenari, fece scalo a Cipro (dove imbarcò altri uomini) e poi mise piede nella Piccola Armenia, qui sorgeva il castello ribelle di Adana, che fu messo sotto assedio (l'impresa era stata richiesta al sovrano dal consiglio dei nobili e Alessio aveva accettato).

Nel Luglio del 1100 Adana fu presa senza difficoltà da Costantino e riunita all'Impero, questa azione allarmò i Turchi che temettero di essere accerchiati, così per intimorire l'Impero una loro flotta mise sotto blocco navale Costantinopoli. Questo folle gesto fece infuriare Alessio che, prese tutte le truppe della Capitale, attraversò gli Stretti e assediò Nicea di Bitinia; la mossa fu molto ardimentosa, le truppe imperiali erano poche e di non eccelsa qualità, ma Nicea era poco difesa (solo il governatore e la sua guardia) e tutto l'esercito turco era nel cuore dell'Anatolia dove erano state occupate Sinope e Attalia.

Alcuni mesi passarono nel preparare le armi d'assedio, col timore di vedere soldati turchi giungere in aiuto della città; Dio volle che ciò non accadesse, le scale furono poste sulle mura, le porte furono aperte, l'armata imperiale entrò in città, trovò il cane turco e lo fece a pezzi. Nicea era di nuovo romea, Alessio tornò in Europa.

Giunse quindi notizia che il Papa aveva indetto una crociata per prendere Antiochia, la cosa allarmò l'Impero che teneva tutti quei barbari occidentali a spasso per i campi della Romània, non restava che affidarsi alla Madonna.

L'estate del 1101 vide un'armata turca assediare Nicea, per alleggerire la presione su questa città, l'armata di Smirne fu inviata ad assediare il castello di Laodicea che era poco difeso (solo il generale con due unità di artiglieria); come previsto le truppe turche lasciarono l'assedio di Nicea per salvare Laodicea, ma non giunsero in tempo, una spia romea aprì le porte del castello e le nostre truppe travolsero il presidio senza difficoltà, la riconquista dell'Anatolia era iniziata.

Dopo questi due rovesci i Turchi non si diedero per vinti, una gigantesca armata puntò su Adana che, per negligenza era stata lasciata poco difesa, e la misero sotto assedio. Intano giunse un messaggio da parte del principe turco: offriva 5000 fiorini per la morte di suo padre e il miglioramento dei rapporti tra i nostri popoli, la proposta fu accettata; il nostro migliore sicario fu inviato ad Attalia (dove risiedeva in quel periodo il sultano) e portò a compimento la missione, il denaro giunse poco dopo nelle casse imperiali. Intanto armate crociate di Venezia, Ungheria e Polonia avevano attraversato il confine del Danubio dirette verso l'Asia.

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09/03/2007 12:25
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Sempre che non facciano come nel 1204 [SM=x506638]

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La speranza oltre la speranza...
10/03/2007 08:28
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Praefectus Fabrum
Capitolo III
Passarono alcuni anni senza che nulla di rilevante accadesse, Adana continuò a essere assediata, mentre Costantino attendeva di vedere il giorno che avrebbe deciso della fine o della vita sua e dei suoi uomini; Durazzo fu nuovamewnte assediata dai Veneziani, mentre emissari imperiali stabilirono un'alleanza con i Germani e rapporti discreti con il papa.

Nel 1103 i Turchi sferrarono un attacco contro Nicea e Laodicea, le truppe infedeli irruppero nella capitale di Bitinia e giunsero fino alla piazza dove furono affrontati dalle truppe imperiali che, con estrema fatica riuscirono a respingerli. Similare fu l'azione al castello di Laodicea dove il presidio era veramente esiguo (250 uomini), facendo resistenza davanti alla porta della seconda cinta e con molte perdite (circa 90) gli imperiali riuscirono a ricacciare il nemico. Il doux già pensava di arruolare nuove truppe per rinforzare il presidio quando i Turchi ritornarono con una nuova armata senza che nulla fosse stato riparato o un solo uomo addestrato; lo sgomento prese il presidio, era la loro fine.

Intanto la crociata veneta aveva attraversato gli Stretti e puntava nel cuore dell'Anatolia, seguita dagli Ungheresi. I primi attraversarono tutta la penisola giunsero fino all'Oronte senza difficoltà, i Magiari invece incapparono in un'armata turca e l'affrontarono venendo sconfitti e annientati. L'attacco magiaro ebbe però un effetto positivo, le truppe che assediavano Adana si ritirarono e Costantino ne approfittò per rinforzare le mura e il presidio.

Mentre Durazzo respinse senza difficoltà i Veneziani, Laodicea fu assaltata: lo scontro fu violento e terribile, i pochi uomini del presidio lottarono come leoni contro le soverchianti truppe nemiche, alla fine il sultano che guidava l'azione fu ucciso, i suoi uiomini, quasi vittoriosi fuggirono, il castello era salvo ma aveva perso quasi 120 uomini. La morte del sultano bloccò per qualche tempo le azioni turche e si potè così provvedere a rinforzare Laodicea in modo adeguato.

L'estate del 1105 vide i Veneziani entrare in Antiochia, così la crociata polacca, che ancora si trovava in Europa si voltò e tornò a casa. In quell'anno accadde una cosa incredibile, gli Ungheresi, nostri alleati da anni e che avevamo sempre onorato ed aiutato con denaro e informazioni geografiche (dopo aver firmato una tregua con il nuovo sultano turco), ruppero il patto a tradimento e misero sotto assedio i castelli di Serdica e Tarnovo, la notizia turbò la Capitale ma non più di tanto, degli Ungheresi non ci si può mai fidare e così i forti erano stati rinforzati per tempo. Un nuovo fronte di guerra si apriva per l'Impero.
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10/03/2007 10:40
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Sembra una cronaca di Michele Psello ehehe. Non vedo l'ora di leggere le gesta del grande Giorgio Maniace, meno della varia serie degli imperatori "Tirchi". [SM=x506658] Ciò che in effetti non sopporto della serie Total War è la diplomazia, assolutamente scadente. L'IA agisce senza un minimo di criterio, anche quando sta per essere schiacciata spesso continua a battersi, altre volte attacca appena dopo si è stipulata una tregua, o addirittura un patto amichevole con scambi commerciali.
Mi piacerebbe giocare in multigiocatore se qualcuno è disponibile.

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10/03/2007 20:47
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Capitolo IV
L'Impero fu profondamente colpito dall'infamia dei Magiari, ma le fortezze del nord erano pronte a ricevere i nemici e così accadde che quando le armate ungheresi irruppero nei castelli furono massacrate dai nostri presidi e ricacciate nei porcili da cui erano uscite.

In Asia i Turchi ripresero a minacciare Nicea e Laodicea senza ottenere nulla, mentre i Siciliani ogni tanto compivano incursioni a Creta ma trovarono sempre il presidio pronto a riceverli. Così trascorsero molti anni finché nell'Ottobre del 1112 sua maestà il basileus Alessio I Comneno si spense serenamente nel Grande Palazzo, nei più di trent'anni di regno aveva portato l'Impero a un grande livello di potenza restituendo ai Romei sei province perdute e allontanando i Turchi dalle mura della nostra Santa Capitale, per tutti questi meriti fu pianto come un padre da tutto il popolo. Il sovrano fu sepolto nell'antica chiesa dei Santi Apostoli, dove riposano tutti gli imperatori romei.

Il regno di Giovanni I Comneno (1112 - 1124)

Il 20 Ottobre del 1112 in S.Sofia il Patriarca Giorgio incoronò Giovanni I Comneno imperatore dei Romei, subito il sovrano volle passare al contrattacco e ridimensionare il potere veneziano e turco, per fare ciò decise che negli anni successivi Ragusa e Attalia sarebbero state annesse all'Impero.

Nel Gennaio del 1114 giunse notizia che Ragusa era sguarnita di truppe, intente alla guerra contro i Germani, Giovanni incaricò Eustazio e gli uomini di Durazzo di attacare la città dalmata. Intanto un nostro emissario informò il sovrano tedesco che l'Impero gli donava un attacco contro il comune nemico, il dono fu ben accetto.

A metà di Gennaio Eustazio partì con quasi tutto l'esercito verso Ragusa e raggiunse la città ai primi di Aprile, purtroppo il presidio era stato ricstituito ma questo non impensierì il miglior generale dell'Impero che si mise ad assediare la città nemica.

[Modificato da Antioco il Grande 10/03/2007 20.49]

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10/03/2007 21:05
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Poi com'è andata a finire a Ragusa?
Io comunque, se fossi in te, lascerei perdere l'Europa e cercherei di ricostituire l'impero bizantino annettendo Siria, Giudea, Egitto e Cirenaica...

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11/03/2007 20:16
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Praefectus Fabrum
Capitolo V
Ci vollero sei mesi affinché le armi d'assedio fossero completate poi, in Luglio, Eustazio, saputo che un'armata veneta marciva su di lui, decise di attaccare.

All'alba del 15 Luglio, il doux Eustazio radunò i suoi uomini e disse: "Romei, sapete bene qual'è il mio coraggio, ve l'ho mostrato più volte, anch'io conosco il vostro valore, solo i Veneziani, che occupano la nostra amata Ragusa, non ci conoscono. Ma ancora per poco; quando la battaglia sarà finita ricordate di non toccare le case dei Ragusani, sono sudditi dell'Impero, le case, i beni, le mogli e le figlie dei Veneziani saranno sufficenti a ripagarvi degli sforzi. Ora con l'aiuto di Dio, avanti, mostriamo al nemico il nostro coraggio, la nostra forza e il nostro valore".

Detto questo fu dato il segnale d'attacco, le torri e le scale furono appoggiate alle mura indifese (i nemici ci attendevano in piazza), dopo poco le porte furono aperte e gli imperiali irruppero in città. Mentre la fanteria puntava sulla piazza dalla via principale (che è detta via di Durazzo), Eustazio e i suoi cavalieri presero le altre due strade (a destra e a sinistra della via di Durazzo) per aggirare il nemico.

Lo scontro delle fanterie fu durissimo, i Veneziani (nonostante le centinaia di dardi) resistettero a lungo incitati dal generale Marco Verdan. Improvvisamente una freccia colpì il comandante veneto che cadde morto a terra mentre i cavalieri di Eustazio entravano in piazza prendendo alle spalle il nemico; i Veneziani si sbandarono un momento e proprio allora gli imperiali si gettarono con maggior impeto sulla fanteria veneta e la travolsero. I Veneziani ruppero i ranghi e quella finì di essere una battaglia e divenne un massacro; non uno dei 568 Veneziani sopravvisse, la fine delle loro mogli e figlie tutti lo possono immaginare, Ragusa era tornata imperiale, le teste di Marco Verdan, di sua moglie e delle sue due figlie furono spedite al doge Morosini, i corpi non furono mai ritrovati.

Eustazio inviò un messo a Bisanzio, il basileus Giovanni si rallegrò moltissimo della notizia e nominò il doux d'Epiro anche doux di Dalmazia. Eustazio iniziò subito a rinforzare le difese, entro un anno l'armata veneta di soccorso sarebbe giunta a Ragusa per bramare vendetta.

Incurante di ciò il basileus ordinò l'attacco contro Attalia, un piccolo corpo di mercenari (230 uomini) guidati dal generale Michele di Chio, figlio di Costantino, fu imbarcato a Smirne per aggirare via mare i monti che separano Laodicea da Attalia, il piano prevedeva di sorpendere i 60 uomini del presidio turco con uno sbarco navale.

Nel Dicembre del 1114, lo sbarco avvenne come previsto e Attalia fu messa sotto assedio.

Ci sarebbero voluti sei mesi perché le scale e l'ariete fossero pronti per sferrare l'attacco, ma in Marzo un piccolo contingente turco di 150 uomini apparve sui monti attorno alla città; Michele ordinò ai suoi di schierarsi sulle montagne da dove si dominava la pianura di Attalia e attendere lì l'attacco delle truppe turche.

L'esercito imperiale riuscì agilmente a disporsi su una montagna scoscesa, Michele schierò i pochi fanti al centro, la cavalleria ai lati e alle loro spalle i balestrieri che, da quella posizione elevata, iniziarono a bersagliare il primo contingente turco che arrivò (i 60 uomini di Attalia).

Come previsto i Turchi furono eliminati senza che si venisse al corpo a corpo, quindi si attesero le altre truppe che arrivarono poco dopo. Queste erano più numerose e, nonostante i dardi, molti arrivarono vicini ai fanti che iniziarono a morire (erano truppe poco adatte). Tutto sembrò perduto quando Michele, con la disperazione, ordinò la carica di tutti i cavalli disponibili, essendo su una montagna molto ripida la carica fu devastante, i Turchi furono travolti e distrutti, la battaglia era vinta.

Michele pensò che ora avrebbe potuto occupare Attalia ormai priva di presidio ma con orrore vide che un secondo esercito turco, composto di 650 uomini, li aveva raggiunti. La prima battaglia aveva falcidiato sia i fanti che i suoi cavalieri, i suoi uomini ammontavano a solo 168 soldati; sperando che i Turchi fossero troppo stanchi per inseguirli, Michele, a malincuore, ordinò la ritirata lungo le montagne.

Iddio però indurì il cuore dei Turchi e li spinse a inseguire le nostre truppe che ripiegavano pregando la Theotokos affinché li salvasse. Dopo un giorno di fuga, i Turchi raggiunsero Michele e i suoi uomini che di nuovo si disposero sulle pareti del monte per cercare di sfruttare l'altezza, anche se con soli 18 fanti e 34 cavalieri sarebbe stato impossibile coprire adeguatamente i balestrieri; andando allo scontro Michele si preparò mentalmente per quella che sarebbe stata certamente la sua ultima battaglia, con orrore pensava a cosa i Turchi gli avrebbero fatto (fin da piccolo aveva sentito narrare la sorte toccata a chi finiva in mano turca vivo, soprattutto se, come lui, aveva solo 18 anni ed era particolarmente bello). Così impugnando la spada decise che, se la sorte si fosse volta contro di loro, mai i Turchi lo avrebbero preso vivo. Quindi, confidando in Dio e nella Madonna, si apprestò allo scontro.
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11/03/2007 23:04
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Ti aspetto nel multigiocatore dove con i veneziani riunirò l'Italia rifondando la Repubblica Romana, e schiaccerò i "bizaceni" ahah. [SM=x506718]

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12/03/2007 20:18
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Capitolo VI - la beffa di Attalia
Dopo aver pensato queste cose, Michele dispose le sue truppe su una ripida parete, ricalcando la tattica usata pochi giorni prima. Questa volta però la fanteria e la cavalleria erano inesistenti così, quando i Turchi giunsero al corpo a corpo le truppe imperiali furono subito a mal partito. Michele pensò allora di dividere tutti i balestrieri e gli arcieri e disperderli per la pianura; pensò infatti che i Turchi, tutti a piedi, sarebbero dovuti correre dietro ai tiratori che intanto li avrebbero falcidiati con i loro dardi, e così fu. Molti Turchi furono annientati in questo modo ma ogni volta che le due armate si toccavano gli imperiali avevano la peggio e morivano, oppure fuggivano.

Michele decise allora di gettarsi nella mischia e farla finita, diede l'ordine di carica e puntò sui Turchi, l'impatto fu tremendo e molti nemici volarono via, quando l'effetto della carica si fu spento, Michele iniziò a perdere i suoi compagni uno alla volta, tutti ragazzi come lui che con lui erano cresciuti ed erano stati allenati; il generale attendeva la sua ora uccidendo nemici senza sosta quando, nella baia vide la flotta imperiale che inviava delle barche a raccogliere lui e i suoi uomini, subito si sganciò dal combattimeto e ordinò la ritirata, tutti i superstiti, circa 60 uomini, si gettarono in mare e raggiunsero le barche e la salvezza.

Non restava che fare ignominosamente rotta verso Rodi o Smirne, quando a Michele balenò in mente che Attalia era a poche ore di navigazione e sempre senza presidio, con audacia ordinò all'ammiraglio Maurizio di fare rotta verso la città, i Turchi a terra capirono l'intenzione ma, essendo a piedi e a cinque giorni di marcia, non poterono fare nulla.

Il sole di quella folle mattina non era ancora tramontato che Michele e i superstiti del suo esercito misero piede nel porto di Attalia, si diressero verso la città e la occuparono senza colpo ferire; la popolazione romea li accolse con gioia e per prima cosa incendiò la moschea e massacrò i pochi Turchi residenti razziandone i beni; per quella notte si sospese ogni attività, l'indomani Michele uscì dalla città e andò ad arruolare tutti i mercenari possibili per aumentare il presidio mentre i suoi ufficiali iniziarono ad addestrare uomini per la milizia cittadina. L'ammiraglio Maurizio partì per recare la buona notizia al basileus mentre un emissario avvisava il comando di Laodicea della vittoria, i Turchi avevano vinto lo scontro ma avevano perso la città.

Pochi giorni dopo i Turchi giunsero ad Attalia e on rabbia videro le insegne imperiali sventolare dagli spalti, quindi decisero di ritirarsi verso Iconio.

Nel Gennaio del 1115 giunse una lettera del basileus che nominava Michele stratego del Thema dei Ciberrioti e si complimentava con il giovane; con la beffa di Attalia si era precluso ai Turchi ogni sbocco diretto sul Mediterraneo, il loro unico porto restava Sinope,nel Ponto Eusino.

Il contrattacco turco non si fece attendere, in Marzo delle grosse armate attaccarono Laodicea, Nicea e Adana, evidentemente cercavano di riprendere un porto sul Mediterraneo; gli scontri furono duri ma le truppe imperiali, anche se con grandi perdite, riuscirono a ricacciare i nemici.

La stessa situazione avvenne anche a Ragusa, a Iraklion, e nelle province danubiane. Così trascorsero i due anni seguenti, il 18 Giugno del 1118 giunse la terribile notizia: a 67 anni di età si era spento a Ragusa Eustazio Macrembolita, doux dei Themata di Durazzo e Ragusa, massacratore dei Veneziani, e generale invitto dell'Impero; la triste comunicazione colpì profondamente il basileus che ordinò che la tomba del generale fosse eratta al centro del foro di Ragusa dove è ancora oggi meta di pellegrinaggio.

Con la scomparsa del migliore generale dell'Impero nuove sfide si preparavano per i Romei che comunque potevano contare ancora su Costantino di Chio e su suo figlio Michele il "beffatore dei Turchi".
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12/03/2007 20:49
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Noto con piacere che, finalmente, hai dato al tuo impero bizantino la giusta dimensione combattendo il Vero nemico storico. Essendo un gioco, abbiamo il grande vantaggio di poter prevenire determinate mosse avversarie. Probabilmente se i Comneni avessero saputo, come noi, quanto i turchi avrebbero fatto pochi secoli dopo alla città e quel poco che restava dell'impero, si sarebbero ben guardati dall'avere spesso e volentieri buoni rapporti con loro.

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13/03/2007 15:12
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Re:

Scritto da: Christof Romuald 12/03/2007 20.49
Noto con piacere che, finalmente, hai dato al tuo impero bizantino la giusta dimensione combattendo il Vero nemico storico. Essendo un gioco, abbiamo il grande vantaggio di poter prevenire determinate mosse avversarie. Probabilmente se i Comneni avessero saputo, come noi, quanto i turchi avrebbero fatto pochi secoli dopo alla città e quel poco che restava dell'impero, si sarebbero ben guardati dall'avere spesso e volentieri buoni rapporti con loro.



O meglio ancora si sarebbero preoccupati di adottare qualche armodernamento in più nel campo militare...






L'avidità è fonte dei peggiori guai dell'uomo.
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Le bellezze della vita sono le difficoltà, sono esse che ti insegnano a vivere. Non piangervi sopra ma superale e impara da esse.
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Non pensare o sperare negli errori del nemico. Per vincere costringilo a fare le tue mosse.

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E non piangere perchè una bella cosa è finita, anzi sorridi e siine felice, poichè essa ci è stata.

13/03/2007 17:47
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CI hanno provato, il fatto è che l'impero bizantino era amministrativamente debole, con strutture millenarie incapaci di reggersi. Io credo che il problema principale nella politica bizantina sia stata proprio quello di non aver mai abbandonato l'eredità di Roma, che pure era solo effimera, visto che erano greci, non latini. Se si fossero accontentati dell'impero niceno, forse, e dico forse, sarebbero riusciti a difendersi meglio dai turchi, a ci sarebbe stata una storia molto diversa anche per l'Europa.

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17/03/2007 20:48
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Capitolo VII
La scomparsa di Eustazio e le recenti annessioni spinsero il basileus ad ordinare alle sue armate di fermare la loro avanzata, i nuovi themata avevano bisogno di essere riordinati in vista delle sfide future e anche le vecchie province dovevano essere gestite per produrre sempre di più e assicurare benessere a tutto l'Impero.

Gli anni seguenti videro le truppe imperiali sulla difensiva su tutti i fronti, al riparo delle possenti mura delle fortezze limitanee l'Impero prosperò in pace, le uniche città sempre sotto attacco furono Iraklion ed Adana.

I Siciliani compirono spesso sbarchi a Creta ma furono sempre respinti; lo stesso avvenne ad Adana dove Costantino l'Iracondo respinse varie armate turche e veneziane (provenienti da Antiochia). Intanto Laodicea si armava e arruolava truppe per preparare l'attacco al castello di Dorileo da cui i Selgiuchidi inviavano sempre assalti contro Nicea.

Il 14 Agosto del 1123 giunse una triste notizia, il principe Manuele (che si stava recando via mare in Asia, per organizzare la conquista di Dorileo) aveva incrociato una violenta tempesta davanti al porto di Smirne, la sua nave fu gravemente danneggiata, lui e 34 marinai caddero nelle onde e non furono mai più ritrovati; con il dolore nel cuore il basileus nominò Costantino Comneno(suo secondogenito e doux di Bulgaria) erede al trono.

La perdita di Manuele, suo figlio prediletto, minò la salute dell'anziano sovrano che cadde gravemente malato; la malattia si protrasse per quasi un anno finchè, all'alba del 5 Giugno del 1124 il basileus Giovanni II Comneno non consegnò la sua anima a Dio, il Senato prese la reggenza mentre si apprestarono i funerali del defunto sovrano; il basileus fu sepolto nella chiesa dei Santi Apostoli al fianco di suo padre Alessio e di suo figlio Manuele.

Il regno di Costantino XI Comneno

Il 7 Giugno del 1124 il patriarca Giorgio di Nicea incoronò Costantino XI Comneno basileus dei Romei in S. Sofia. Subito i Turchi sferrarono un nuovo attacco contro Nicea mettendo la città sotto assedio; il basileus decise di portare avanti il piano di annessione di Dorileo e incaricò Costantino di Chio dell'operazione,le nuove truppe di Laodicea quindi partirono di nascosto per puntare su Dorileo che era difesa dal solo erede al trono turco (tutta l'armata era andata a Nicea).

Nel Settembre del 1126 Nicea fu assalita, il presidio soffrì numerosissime perdite e quasi fu travolto ma alla fine riuscì a respingere l'armata turca che fu distrutta; quasi nello stesso periodo Costantino di Chio mise sotto assedio Dorileo: la marcia era stata molto lenta a causa delle catapulte che l'esercito portava con sè, ma grazie a questo non ci fu bisogno di aspettare la costruzione di armi d'assedio e il castello fu subito assalito. Il principe Solimano combatté coraggiosamente ma la schiacciante superiorità numerica lo travolse; il pricnipe fu ucciso e decapitato; la testa fu recata a Bisanzio dal basileus che ne gioì profondamente, Costantino di Chio ebbe il titolo di doux del Thema degli Opsiciani e poi spedì la testa di Solimano al sultano.

Nell'estate del 1125 una gigantesca armata mora sbarcò sulle coste dell'Epiro, subito un emissario andò a intavolare rapporti amichevoli con i Mori e scoprire le loro intenzioni.
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18/03/2007 17:58
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Magari il Senato bizantino avesse avuto qualche voce in capitolo, in realtà l'autocrazia spietata fu il più grande nemico dell'impero d'oriente...

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La speranza oltre la speranza...
18/03/2007 20:48
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Capitolo VIII la battaglia di Adana
L'inverno del 1127 vide i Veneziani di Antiochia assalire Adana, Costantino l'Iracondo reagì prontamente e li respinse con numerose perdite; quindi andò nelle campagne ad arruolare mercenari.

Il basileus aveva una concezione molto aggressiva della politica e quindi incaricò Costantino di Myra di conquistare il villaggio di Belgrado sul Danubio, lo stratego partì con un'armata da Serdica e puntò sulla ribelle Serbia; intanto un secondo esercito mercenario (guidato dallo stratego Manuele di Efeso) marciò verso la turca Sinope che le nostre spie reputavano poco difesa.

gli anni seguenti trascorsero senza problemi, nell'Aprile del 1131 Sinope fu raggiunta e annessa, Manuele fu nominato doux del nuovo Thema; a Maggio fu la volta di Belgrado. Il villaggio fu facilmetne annesso e poco dopo tutta la Serbia fu riunita all'Impero; Costantino di Myra fu incaricato di tramutare quel piccolo agglomerato di capanne in un castello imprendibile, i lavori iniziarono subito.

I Turchi per risposta assalirono Adana ma furono respinti da Costantino che subì però gravi perdite. Nel Gennaio del 1132 il figlio dell'Iracondo (Manuele) divenne stratego e l'imperatore lo destinò, come primo incarico, al governo di Cipro; intanto le forze dell'Islam dichiararono una guerra santa per prendere Baghdad, ciò spinse anche l'armata moresca in Epiro a partire e ad allontanarsi dai nostri territori.

Gli anni seguenti tracorsero relativamente in pace, nel Novembre del 1133 un'armata egiziana prese Baghdad, ciò causò un grave problema all'Impero. L'armata turca che era partita per Baghdad sotto il comando del sultano Tatar era ancora presso Adana quando giunse notizia della vittoria egiziana: il sultano, gonfio d'ira, decise di volgere contro la nostra città l'immensa armata che guidava e così fu posto l'assedio ad Adana.

Cstantino l'Iracondo fu sgomento nel vedere le migliaia di Turchi che si ammassavano davanti alla porta di Antiochia, le sue truppe ammontavano a circa 480 tra mercenari e miliziani più la scorta sua e di suo figlio(rimasto bloccato in città dall'assedio); il sultano aveva 2350 uomini ben armati e motivati: la vittoria sarebbe stata difficile da conseguire, non restava che attendere.

L'attesa durò sei mesi, e giunse l'alba del 5 Giugno del 1134: le truppe turche si misero in movimento verso le mura,Costantino radunò i suoi uomini nel foro e li incitò: "Soldati, oggi affronteremo i Turchi, la vittoria è difficile da ottenere ma non impossibile, con l'aiuto di Dio prevarremo. Avanti con onore!". Poco dopo le porte furono infrante e la marea turca irruppe in città gettandosi sui fanti che presidiavano l'accesso al foro, gli arcieri di entrambi i fronti scagliavano dardi in continuazione, le nostre truppe però erano troppo inferiori di numero,ma resistettero con coraggio. Quando i fanti erano nel culmine dello scontro il sultano si gettò alla carica e quasi travolse gli imperiali; il doux ordinò una contro carica e nello scontro il sultano finì meritatamente all'Inferno. Questo evento però non demoralizzò i suoi, anzi. 200 lancieri turchi scalarono le mura presso la porta di Cesarea e raggiunsero il foro dal fianco sinistro, mentre tutti i nostri erano impegnati nello scontro, il doux e suo figlio si volsero allora verso di loro e con gravi perdite riuscirono a fermare gli assalitori; per fare questo però lasciarono soli i fanti che furono travolti dalle truppe nemiche. Lo scontro si spostò al centro del foro; gli arceri misero mano ai pugnali e si gettarono contro la cavalleria pesante turca seguiti da Manuele che, a 19 anni, affrontava con coraggio la sua prima battaglia. La lotta fu durissima, anche Costanino si gettò nella mischia e con orrore vide suo figlio travolto e fatto a pezzi dai Turchi, la sua testa fu fissata su una picca e mostrata a suo padre socnvolto. Lui e i 32 uomini rimasti continuarono a lottare circondati da 675 nemici oramai ebri di vittoria, il cavallo di Costantino fu sventrato da una lancia, il doux cadde a terra, i nemici gli furono sopra e un giannizzero gli troncò di netto la testa, poco dopo i suoi uomini furono massacrati. I Turchi irruppero nelle case e violarono le donne e le figlie dei Romei, quella sera fu rischiarata dai fuochi degli incendi, Adana era caduta in mano selgiuchide.

Il basileus fu duramente colpito da questo evento, ma non disperò. Fu ordinato a Laodicea e Dorileo di aumentare l'addestramento delle truppe, tra qualche tempo Adana sarebbe stata ripresa; intanto si diede ordine a Costantino di Myra di marciare da Belgrado contro il castello veneto di Zara dove risiedeva in quei giorni il doge Venier: con Zara tutta la costa dalmata sarebbe tornata sotto controllo imperiale.

Le truppe di Costantino giunsero in vista del castello nel mese di Settembre del 1134, ma trovarono un'imponente armata veneta che li aspettava, giunta in aiuto del suo doge. Costantino, per nulla intimorito si preparò allo scontro, che sarebbe stato durissimo.
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18/03/2007 22:10
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Ma se l'iracondo, che era il basileus mi pare, è rimasto chiuso con il figlio sotto assedio, ora dovrebbero essere entrambi morti.
Un bello smacco per l'impero bizantino. [SM=x506649]

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19/03/2007 20:58
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Chiarimenti
Costantino l'Iracondo non era il basileus (che è Costantino Comneno), ma solo un generale dell'Impero (la confusione è causata dalla presenza di più persone contemporaneamente con il nome Costantino).
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19/03/2007 21:09
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Capitolo IX Prima battaglia di Zara
Le truppe di Costantino di Myla speravano di trovare Zara indifesa (come le spie avevano riferito), invece trovarono un'armata di 680 uomini proveniente da Zagabria a cui si unì il presidio di Zara (280 uomini) guidati dal doge stesso.

Costantino non si preoccupò, schierò le sue truppe (quasi 1000 uomini) sulle colline presso il castello e attese l'attacco veneto. L'armata principale nemica attaccò con una pioggia di dardi e colpi di catapulta, i balestrieri imperiali non si impensierirono e risposero all'attacco mentre le fanterie venivano a contatto. Lo stratego e la cavalleria travolsero di carica i contadini veneti posti sull'ala sinistra e presero le catapulte alle spalle, poi si voltarono contro gli uomini del capitano Riccobono e li fecero a pezzi uccidendo pure il capitano. L'armata veneziana continuò a lottare mentre il doge e i suoi uomini giungevano in socccorso; Costantino lo affrontò a viso aperto e dopo poco, lo mise in fuga. Questo segnò la rotta del suo esercito che fu distrutto, il doge e i suoi uomini però riuscirono a ritirarsi a Zara. Dei 680 Veneziani di Riccobono solo 60 ritornarono a Zagabria, ma le truppe del doge erano quasi intatte mentre Costantino aveva perso più della metà delle sue truppe, confidando però sempre su una superiorità numerica superiore al doppio, decise di non ritirarsi ma assediare Zara, quei morti non dovevano restare senza una giustificazione.

Nel Febbraio del 1135 le armi d'assedio erano pronte e Costantino, riuniti i suoi e invocata la Madonna, ordinò l'attacco al castello di Zara, il doge doveva pagare le sue malefatte.
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19/03/2007 21:32
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Speriamo che Zara italiana resista all'affronto greco. Non posso nascondere che quando combatti i veneziani, l'unica fazione in grado di unificare l'Italia, parteggio spudoratamente per loro. [SM=x506715]

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20/03/2007 14:14
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Re:

Scritto da: Christof Romuald 19/03/2007 21.32
Speriamo che Zara italiana resista all'affronto greco. Non posso nascondere che quando combatti i veneziani, l'unica fazione in grado di unificare l'Italia, parteggio spudoratamente per loro. [SM=x506715]



In che senso "l'unica fazione in grado di unificare l'Italia"? C'erano anche Milanesi e Siciliani (che dopotutto di Non-italiano avevano solo chi era al potere...i normanni...almeno all'inizio).






L'avidità è fonte dei peggiori guai dell'uomo.
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Le bellezze della vita sono le difficoltà, sono esse che ti insegnano a vivere. Non piangervi sopra ma superale e impara da esse.
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Non pensare o sperare negli errori del nemico. Per vincere costringilo a fare le tue mosse.

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E non piangere perchè una bella cosa è finita, anzi sorridi e siine felice, poichè essa ci è stata.

20/03/2007 16:38
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Re: Re:
Aproposito di Milanesi...mi sono avventurato nella realizzazione di un piccolo aar o meglio raccontino, che riepiloghi la prima parte di una mia campagna con i Meneghini. L'ho fatto, cercando viverla dal punto di vista di chi, le nostre campagne le fa e ci lascia la pelle o i bit. Insomma, i protagonisti di questo racconto o diario di guerra sono i nostri soldatini virtuali, ai quali va la mia più profonda riconoscenza per il divertimento che mi regalano, senza chiedere mai nulla in cambio..ahaha!!
Ah...assolutamente la mia non è una autocelebrazione...semplicemente mi sono divertito un sacco a scriverla e vorrei condividere con voi, il frutto della mia mente forse un pò malata.
ma andiamo a cominciare.........

Anno domini 1115 febbraio nei dintorni di Pavia
La legna brucia piano nel piccolo focolare. L’aria è pesante e viziata da miasmi che vanno da una deprimente minestra di radici ad odore di stracci umidi e mal lavati. Fuori la nebbia ha definitivamente avvolto la campagna e il timido sole invernale.
Seduto intorno ad una lurida tavola, un gruppo quattro vecchi soldati, beve cupamente da una brocca di vino rancido ed annacquato.
La taverna si chiama “il gallo d’oro” ma potrebbe tranquillamente chiamarsi “disperazione” tanto è lo squallore che la contraddistingue.
Improvvisamente la porta si apre ed insieme alla nebbia entra un giovane contadino, che timidamente si avvicina ai soldati.
“Salve! Il mio nome è Berengario e vorrei…”
“ Zitto moccioso non vedi che siamo occupati!” lo interrompe un anziano balestriere, dall’uniforme sgualcita ed il giustacuore lacerato.
Il giovane si allontana di un passo, stupito dal silenzio che continua a perdurare nella taverna.
Improvvisamente uno dei quattro anziani soldati, probabilmente un picchiere, sbotta in una grossa risata: “ Vi ricordate a Berna? Cavoli… che macello!! Astulfo…ti ricordi quel capitano ribelle come piangeva mentre lo trapassavi con la spada?!! Eehhhh bei tempi quelli…soldi, donne, una battaglia ogni tanto e poi feste e banchetti. Allora sì che Noi si era considerati “.
“ Già!” risponde quello con la divisa da miliziano cittadino “….allora ci portavano tutti rispetto! Non come ora…quando chiedevi del vino, ti portavano il migliore … non come in questa lurida bettola….Oste della malora…vuoi farci cagare vermi verdi con la tua sbobba indecente” grida voltandosi verso un omino con un grembiule che, nelle migliori intenzioni, doveva essere bianco.
“ La conquista di Bologna ha rammollito il Gran Duca….” Sibila un arciere senza un occhio e con il viso solcato da due cicatrici.
Improvvisamente i quattro si voltano verso il giovane, che nonostante l’aspetto burbero della conversazione e rimasto imbambolato ad ascoltare.
“Non c’è posto per un contadinello nell’esercito…non lo sai che le guerre sono finite!!Sì lo sappiamo che vuoi arruolarti, vuoi uscire dalla sporca vita che fai, vuoi viaggiare e, magari, un giorno diventare un soldato famoso ed intrepido….ma gli arruolamenti sono bloccati…non c’è più bisogno di noi….non c’è più bisogno di noi..” Il vecchio picchiere abbassa la testa, forse per nascondere le lacrime di rabbia che già si intravedono dalle folte sopracciglia.
“forse potresti tentare la fortuna come giullare di corte” ammicca l’arciere.
Berengario si volta per andarsene, con la sensazione bruciante di dover gettare al vento tutti i suoi sogni, quando una mano callosa gli afferra un polso.
“Tranquillo sbarbatello….forse potresti tentare la fortuna con un bel viaggetto a Damasco. Lì han sempre bisogno di carne fresca”
A parlare è stato il miliziano con uno sguardo tra il serio ed il divertito.
“maaaah, laggiù non è più guerra! È solo un continuo assassinio tra predoni” si intromette l’arciere “Siediti ragazzo….vediamo se hai la voglia e la pazienza, e ricorda che la pazienza è la prima regola che impara un soldato, di ascoltare quattro vecchi rottami che ne hanno passate di cotte e di crude, prima di finire in questo schifoso buco a bere vino rancido”.
Il giovane si siede, Il miliziano comincia a raccontare con una voce sorprendentemente calma e lo sguardo fisso verso giorni più caldi, indietro….molti anni più addietro.
Anche gli altri tre, si perdono nel passato, ognuno a modo suo e ognuno con il suo ricordo di gloria, sangue e vittoria.


Anno Domini 1085 Aprile Sud della Corsica
Ildebrando è seccato. Non gli hanno concesso di stare in prima fila nello schieramento di battaglia. Il suo comandante gli ha spiegato che è ancora troppo giovane per sostenere l’urto di una carica di cavalleria o di una di fanteria. Per il momento deve solo guardare, imparare e possibilmente sopravvivere. E’ pomeriggio inoltrato, oltre l’immenso prato che gli si stende davanti, proprio sulle mura di cinta della cittadella, c’è il nemico!
Ribelli! Un esercito di ribelli. Più in alto, sulla sommità della collinetta ecco il castello da espugnare: Aiaccio. Il Generale della forza di invasione (uno degli innumerevoli cugini del Gran Duca) cavalca sicuro di fronte all’esercito milanese schierato a battaglia. Urla qualcosa ma è troppo lontano per sentirlo. Le compagnie di fianco alla sua sono formate anch’esse da miliziani cittadini. Il numero è dalla loro parte ma è l’esperienza che manca.
Il giovane miliziano non sa che il Gran Duca di Milano, signore di Genova ha deciso, in comune accordo con il consiglio dei maggiorenti, la conquista di questo avamposto sul Tirreno per poter poi disporre di un eventuale trampolino verso la Sardegna . Non sa che questo piccolo castello deve diventare il serbatoio di soldati sufficientemente addestrati, necessari alla conquista di Firenze.
Non sa che il cugino del Gran Duca, Massimino Dardo, ha sconsigliato questa mossa, accusando l’impreparazione dell’esercito meneghino.
Troppi giovani, pochi soldati esperti e pochissime truppe che hanno già affrontato una battaglia.
Le due unità di mercenari, entrambe di fanteria, si sono già disposte dietro l’ariete.
Ecco il suono del corno. Si comincia! Tutta la fatica per arrivare a questo punto, viene dimenticata. Nonostante la temperatura gradevole, la lancia e lo scudo sono scivolosi nelle sue mani abbondantemente sudate..
L’ariete parte con slancio e subito è investito da una pioggia di frecce infuocate. Diversi uomini della compagnia che lo sospinge vengono trasformati in torce ma continua ad avanzare.
“Sono alla porta!!” Si sente gridare da qualcuno alla sua destra.
Uno, due, tre colpi e poi ancora e ancora, fino allo schianto della porta in legno.
I miliziani addetti all’ariete si addossano alla palizzata mentre i due reparti di mercenari si infilano nel varco correndo a testa bassa.
Dalla sua posizione, Ildebrando non capisce molto di quello che sta succedendo. Si sentono solo alte urla e una miriade di figure che corrono,lottano, cadono per non rialzarsi.
Improvvisamente il corno suona di nuovo.
E’ il segnale. I mercenari non sono riusciti a passare o sono in serie difficoltà. Tocca alla sua compagnia. Di corsa, a perdifiato, con le frecce che trafiggono i compagni al suo fianco, calpestando i primi cadaveri ridotti a cenci bruciacchiati. Finalmente la porta scardinata appare di fronte a lui, con un balzo supera un groviglio di corpi immobili a terra. Inciampa e cade con il viso in un ventre squarciato. Vomita e con la faccia imbrattata di sangue si rialza, carica la fila dei nemici che gli stanno di fronte. Non si accorge di ciò che gli capita intorno. Il nemico ha bloccato lo slancio degli attaccanti e sta cercando contenere al massimo le unità che si sono infilate nella cittadella, mentre gli arcieri ne fanno strage. Il Generale meneghino si è accorto di ciò ma non ha né il tempo né i mezzi per forzare le mura in qualche altra parte. Quindi pompa il maggior numero di soldati nella breccia, ordinando agli arcieri ai suoi ordini di annientare quelli avversari.
Il risultato è che, a causa dell’inesperienza molte frecce cadono tra le due masse di fanteria, che si stanno battendo nella via principale. E’ un massacro.
Ildebrando urla come un forsennato, mentre si batte contro un gigantesco soldato ribelle. Colpisce in affondo lo scudo dell’avversario, mentre questi, con esperienza lo respinge per poi gettarlo a terra con uno spintone.
Il giovane è sopraffatto dal terrore. Torreggiando su di lui, il nemico sta per infilzarlo con la sua spada, quando una freccia lo trafigge al collo. Il corpo senza vita del ribelle gli rovina addosso. Si rialza ansimante, lo scudo ormai inservibile gli penzola dalla mano, mentre la lancia è malferma nella sua mano tremante. Gira intorno lo sguardo come una lepre braccata, conscio del fatto che, nella mischia, la morte può raggiungerti da ogni parte, ma solo allora si accorge che la battaglia si è allontanata, verso il centro del paese.
Con gambe incerte si avvia verso il rumore del combattimento ma quando vi giunge è già tutto finito. I soldati superstiti milanesi levano alti Hurrà inneggiando con le spade e le lance all’indirizzo del Generale e dei suoi cavalieri pesanti.
Questi, infatti, approfittando dell’allontanarsi del combattimento dalla breccia, si era portato su una stradina parallela a quella centrale e convergendo rapidamente sulla piazza, aveva investito sul fianco gli arcieri ribelli. Debellati questi ultimi aveva attaccato alle spalle le unità nemiche che ancora resistevano, inducendole alla fuga. Soluzione, peraltro inutile, visto che nessuno era scampato alla morte, dopo l’inseguimento da parte degli inferociti uomini delle milizie.
Ildebrando è in stato confusionale. Ogni parte del suo corpo sembra sia passata sotto una macina. I suoi compagni lo accolgono tra loro, ridendo e scherzando sul suo orribile aspetto. Ma sono risate a denti stretti, dettate più dallo sciogliersi della tensione che da un reale sollievo di essere sopravvissuti. Qualcuno addirittura piange, in disparte, vergognandosene. I più anziani, allora li abbracciano, li rincuorano, li riempiono di vino svuotando le bisacce nelle loro gole riarse.
Della sua compagnia non sono rimasti in molti. Una quarantina in tutto. Molti, troppi, giacciono a terra, chi morto chi morente, con braccia amputate, teste fracassate, orrende ferite che ne deturpano il volto. L’agonia di questi feriti durerà anche giorni, prima che la sorte non ne decida la guarigione, oppure la morte.
Il ferrigno odore di sangue pervade l’aria, frammisto al puzzo di fumo e di carne bruciata.
Il Generale vittorioso è soddisfatto. Le spaventose perdite che ha sofferto il suo esercito non lo turbano. In breve, pensa, saranno ripianate da nuovi arruolamenti. L’importante è la conquista di Aiaccio. La gloria è sua, il castello pure. Dolore e morte li lascia volentieri ai suoi soldati.
Un aiutante di campo riferisce il resoconto della battaglia.
Ribelli: 480 uomini
Milanesi: 1150 uomini
Perdite ribelli: 480 uomini
Perdite milanesi: 530 uomini.
Non è stata una battaglia epica, ma per quelle ci sarà tempo. Ora è impaziente di spedire un messo a Milano per annunciare la sua vittoria.
Nel frattempo si insedia nel castello e concede ai suoi soldati due giorni di riposo e festeggiamenti a spese, naturalmente, della popolazione. Questa accetta volentieri, conscia del fatto che le cose sarebbero potute andare decisamente peggio.
Ildebrando non si lascia coinvolgere nella razzia di denaro o nella ricerca di donne. Come la maggior parte dei pivelli che hanno combattuto oggi per la prima volta, si accuccia in un angolo a ripensare ogni istante della battaglia. Poco alla volta il terrore e l’apatia si dileguano, lasciando il posto ad un calmo orgoglio. In fondo non è nemmeno stato ferito di striscio. A notte inoltrata si sente pronto a festeggiare con i compagni davanti al falò e dopo diversi bicchieri di vino è impaziente di partecipare ad una nuova battaglia.


Anno Domini 1094 Novembre nord di Berna
“Colpito in pieno!!” Astolfo Barberino, balestriere ducale, è molto soddisfatto del suo tiro. A cento passi di distanza la quadrella si è conficcata profondamente nel mezzo del giovane abete, utilizzato come bersaglio. Non è così semplice fare altrettanto. Lo sanno bene anche i suoi compagni, ma d’altronde conoscono bene anche Astolfo.
Entrato giovanissimo nell’esercito, a soli 14 anni era già un provetto arciere. Partecipando a diverse battaglie minori, si era messo in luce, quando a 18 aveva salvato la vita al suo capitano, con un tiro eccezionalmente lungo e preciso, colpendo in pieno petto un cavaliere ribelle.
Dopodiché, era entrato a far parte dell’elite di quel tempo, in fatto di armi da tiro. Era stato promosso balestriere. Subito impiegato in decine di scaramucce di confine aveva affinato la sua bravura nell’uso di quella nuova arma, guadagnandosi i gradi di sergente.
Ora, alla soglia dei 30 anni, insieme alla sua compagnia, si trova nei pressi di Berna, castello da alcuni anni conquistato dai milanesi. L’esercito meneghino è accampato da alcuni giorni in un’ampia vallata, circondata da alte montagne. E’ freddo e la neve caduta di recente, non migliora le cose.
Astolfo estrae la quadrella dal tronco e si volta in direzione della tenda del comando.
Il comandante non è un nobile imparentato con il Gran Duca. E’ un capitano noto per il suo coraggio e la sua perizia tattico-strategica. Il suo nome è Gianni.
Non è la prima volta che si trova sotto il suo comando e ne è piuttosto contento.
Lo vede salire in sella al suo destriero, seguito dalla scorta di cavalieri pesantemente vestiti ed armati. Urla cominciano a sentirsi da ogni parte dell’accampamento. Anche il capitano della sua compagnia arriva urlando. E’ il momento di muoversi. Oggi ci sarà battaglia. Oggi si chiuderanno i conti con l’ultimo esercito ribelle che resiste all’interno del territorio ducale.
Dopo la conquista di Firenze da parte di un esercito di medie dimensioni, che l’aveva presa per fame, il Gran Duca si era deciso, forte del consenso del consiglio dei maggiorenti, ad aumentare le dimensioni del proprio territorio. Ingenti somme erano state investite nella costruzione di caserme ed armerie, cantieri navali e centri di arruolamento. Ma non erano state tralasciate anche cose più favorevoli alla popolazione. La produzione di cibo era aumentata, così come la messa in opera di strade funzionali. Il commercio era stato incentivato e anche l’edilizia, sia civile che religiosa, incoraggiata.
La politica diplomatica aveva raggiunto un grado di affidabilità eccelsa. Non vi era, infatti, nessun monarca straniero, per quanto “difficile”, che non fosse stato blandito, aiutato e foraggiato da una miriade di emissari. Il risultato era una serie di ottime alleanze con i maggiori stati confinanti e non. Agli occhi del papa non vi era nazione con eguale fervore religioso che non il Gran Ducato.
Tuttavia per compiere tali cose, necessitava un numero sempre crescente di soldi. Per recuperarli, il signore di Milano e di Genova era costretto, diverse volte, a depredare città ribelli (Firenze Cagliari, Tunisi e Berna). Eliminando i ribelli dal suo territorio, si sarebbe ravvivato anche il commercio verso l’oltralpe, terra dalle molte possibilità.
Ecco il perché di quella spedizione in terra elvetica. In quella zona, infatti, staziona da diversi anni un imponente esercito ribelle, guidato da un capitano ex meneghino di dubbia levatura morale, ma di indiscutibile perizia militare. Il suo nome è Carcano. Ai suoi ordini ci sono più di duemila uomini.
Tutte queste cose, Astolfo le conosce molto bene, in parte per averle vissute sulla sua pelle, in parte per sentito dire. La vita del soldato ducale è piuttosto piacevole, quando non si è in battaglia. Marciando per le strade del Gran Ducato si gode appieno il senso di benessere e di abbondanza che ne contraddistinguono le città, i paesi e le più piccole borgate.
Ma ora non è tempo di indugi. Il grosso esercito milanese si prepara a marciare contro i ribelli.
Più di 2300 uomini, divisi in 20 compagnie. Il nord del paese è praticamente privo di difesa. Ben quattro di queste sono di balestrieri, due di arcieri, altrettante di addetti alle grosse baliste, quattro di fanti e ben otto di cavalleria, sia pesante che leggera.
Il balestriere si incammina a fianco del comandante della sua compagnia verso la strada infangata, seguito dal resto dei suoi uomini. Qualcuno inizia a cantare, qualcun altro grida di far silenzio, un altro impreca per il freddo, la fatica la paura. Un grosso serpente di uomini si snoda nella vallata.
Dopo un’oretta di marcia spedita appare un grosso pianoro, sulla cui sommità cominciano a disporsi le varie compagnie in base agli ordini.
Dalla sua posizione, Astolfo, che con i suoi compagni balestrieri si trova in posizione leggermente arretrata ed elevata rispetto agli altri reparti, può godere in pieno della vista dell’intero schieramento di battaglia.
In prima linea due compagnie di arcieri, affiancate da altrettante unità di balestrieri. Arretrate di una decina di passi si trovano le compagnie di fanti. Ai fianchi due squadroni di cavalleria leggera e due di pesante.
Ancora dietro, le due unità di balestrieri ed i reparti delle baliste. In riserva i restanti quattro squadroni di cavalleria leggera e pesante tra cui quello del capitano Gianni.
La vista è impressionante. La moltitudine si staglia maggiormente sulla bianca coltre di neve che riverbera in uno splendido gelido mattino.

Ma ecco che dal fondo del pianoro arriva l’esercito nemico. Di dimensioni pari, se non maggiori, a quello ducale. Anche aguzzando la vista non si riescono a distinguere bene i reparti né come si stiano consolidando le posizioni. L’unica cosa certa è che non ci sarà una carica di cavalleria, in quanto l’avversario ne è debolmente provvisto. Al massimo si tratta di due squadroni di cavalleggeri e uno di cavalleria pesante. In compenso un numero impressionante di fanti è posto in prima linea con la copertura di altrettanti arcieri arretrati di una ventina di passi.
I ribelli completano lo schieramento senza neppure fermarsi, segno di buon addestramento, e si avvicinano alla prima linea meneghina con passo lento ma sicuro. Ordini sono urlati tra le file. Rumore di corde che si tendono e di leve che girano fino al secco scatto del meccanismo di bloccaggio delle balestre. Astolfo è pronto con la sua arma.
Ma ecco che improvvisamente una staffetta in arrivo da Berna raggiunge il capitano milanese. Pochi minuti dopo, un’inquietante voce si spande tra le truppe. Un’altra armata ribelle, che si era nascosta agli esploratori in una stretta valle vicina, si sta dirigendo verso il loro fianco destro. Istintivamente le unità che si trovano in quella posizione, ruotano lentamente il loro fronte in quella direzione. Il comandante si consulta con i suoi subalterni.
Anche se lontano, il balestriere capisce, dai cenni del capo del Capitano Gianni, che la soluzione alla battaglia è solo una veloce sconfitta dell’esercito ribelle che sta loro di fronte.
I portaordini corrono veloci tra le file e immediatamente la sua compagnia, con una compagnia di fanti viene spostata sull’estrema destra dello schieramento ducale. Gli ordini sono di resistere, in caso di assalto nemico, fino a, quando il resto dell’esercito non potrà intervenire in aiuto. In pratica, pensa amaramente Astolfo, lui e i suoi compagni sono condannati.
Ecco la seconda armata che appare, superando un declivio. Sono meno di quanto si temesse, circa 750 uomini, per lo più fanti e cavalleggeri, ma muovono verso di loro a velocità sorprendente.
Nel frattempo il capitano milanese ha lanciato la cavalleria pesante, alle spalle dei ribelli, per effettuare una manovra a tenaglia, mentre tutti gli arcieri ed i balestrieri tirano nel mucchio della fanteria. Questa cozza fragorosamente sulla prima linea meneghina. Il familiare rumore di acciaio contro acciaio, grida e ansimi di agonia, arriva fino alle posizioni tenute dai due manipoli sul fianco destro.
Con un occhio alla battaglia che infuria ed uno verso il nemico in arrivo, Astolfo alza la balestra, prende la mira e fa partire la quadrella che si perde nella moltitudine dei ribelli.
Febbrilmente ricarica ma ormai la cavalleria nemica ha raggiunto la compagnia di fanti che protegge il suo reparto. Da quel momento in avanti è tutto un susseguirsi di lanci e ricariche, fino a quando la sottile linea protettiva dei difensori cede e il nemico, a cui si sono ormai aggiunte almeno 2 compagnie di fanti, dilaga tra i balestrieri.
E’ il momento di estrarre la spada dal fodero e di battersi come un qualsiasi fantaccino. Proprio davanti a lui, uno di questi, sta per essere sopraffatto da un feroce ribelle. Astolfo si interpone tra la vittima ed il suo carnefice e con un fendente taglia di netto il braccio di quest’ultimo.
Tutto intorno è una confusione totale, ma, sebbene decimate (sono ridotte ormai ad una sessantina di uomini ciascuna), le due unità a protezione del fianco destro tengono senza retrocedere di un metro.
Il balestriere ed il suo nuovo compagno che nel frattempo si è rialzato si battono schiena contro schiena, affrontando uomini a cavallo e non, mulinando le spada e la lancia. Mucchi di cadaveri si formano lì dove la lotta si fa più agguerrita. Non c’è possibilità di sapere come si sta sviluppando la battaglia principale. Non si fa illusioni, il nostro, continuerà a battersi fino all’ultima goccia di energia.
Si ritrova improvvisamente davanti ad un capitano ribelle a cavallo che lo carica con foga. Con mestiere ed esperienza, evita la carica, gettandosi di lato per poi colpire di taglio la gamba destra del cavaliere. Questi rovina a terra, mentre il cavallo fugge. Astolfo si porta su di lui, brandendo la spada, pronto al colpo di grazia, imitato dal fante che per tutto il tempo gli è stato a fianco. Il capitano ribelle, vistosi perduto implora pietà mettendosi addirittura a piangere per il terrore. Ciò non fa che rendere furioso il soldato meneghino che lo trafigge con un grido di rabbia cieca.
Quasi come un segno del destino, irrompe nella mischia la cavalleria pesante del comandante lealista che spazza via i resti delle compagnie ribelli. Altri due squadroni di cavalleggeri si danno all’inseguimento dei superstiti, sterminandoli. La battaglia è finita.
Il balestriere conficca la spada nel terreno e si guarda intorno per capire cosa sia realmente successo. Ovunque cada il suo sguardo vi sono cadaveri, il pianoro si è trasformato in un macabro tappeto di morte. La densità maggiore di vittime si ha nelle zone dove si è combattuto più aspramente. Ciò gli rivela la dinamica della scontro, forte della sua decennale esperienza sui campi di battaglia.
La manovra a tenaglia degli squadroni di cavalleria, ha funzionato perfettamente, polverizzando la controparte nemica. Proseguendo l’assalto alle spalle degli avversari, ne hanno travolto le linee, impegnate nel contempo in aspro combattimento con i fanti milanesi. La dissoluzione dell’esercito ribelle è stata completata dalla carica simultanea di ben 4 squadroni di cavalleria.
Subito dopo questi stessi hanno deviato sulla loro destra per irrompere verso il fianco tenuto dalle due compagnie, ormai sull’orlo del collasso. Nessun dubbio che la vittoria sia dovuta in gran parte, a quel pugno di balestrieri e di fanti, che hanno resistito al limite delle loro forze, per contrastare la seconda armata ribelle, sebbene in inferiorità di quasi 3/1.
La cosa è confermata dal fatto che il capitano Gianni in persona, sceso da cavallo, si sofferma a stringere la mano ad ognuno dei superstiti.
Il computo finale dello scontro (ma questo Astolfo lo può solo immaginare) è il seguente:
Esercito ducale: 2350 uomini
Esercito ribelle: 2236 uomini + 754 uomini
Perdite esercito ducale: 505 uomini
Perdite esercito ribelle: 2140 + 710 uomini.
La considerazione nei confronti del proprio capitano, cresce in maniera esponenziale in Astolfo, dopo un gesto simile. Nessuno, a suo pensare e non solo, è un capo naturale deciso ed umano allo stesso tempo.
Egli si gira a ricercare il fante con il quale ha condiviso la lotta e lo trova seduto poco distante. Gli si avvicina e lo aiuta a rialzarsi. I due si stringono la mano ed in questo momento inizia e si cementa un’amicizia che durerà negli anni a venire. Il nome del fante è Berto Remondini. Insieme si allontanano verso un carro provviste dove sono certi di poter trovare qualcosa da bere per scacciare la fatica del combattimento.
La battaglia si è conclusa e porta con se diverse conseguenze positive. I ribelli sono definitivamente cancellati dal territorio ducale. Nuovi commerci e nuove prosperità attendono i suoi abitanti. I soldi che saranno risparmiati per il mantenimento della sicurezza interna potranno essere investiti in nuove iniziative ed in eventuali nuove spedizioni militari (maggiormente renumerative). Si ipotizza, infatti, l’indizione di una crociata in Terra Santa da parte del nuovo Papa. Il capitano Gianni viene finalmente riconosciuto come membro della famiglia ducale, sposando una nipote del capofazione.
Per Astolfo la ricompensa si riduce a qualche decina di scudi d’argento trovati nelle tasche del capitano ribelle ucciso. Ma non se ne cura più di tanto. Verrà il giorno in cui il bottino sarà decisamente più alto, il giorno nel quale strapperanno a Venezia (l’odiata Venezia) qualche città importante.
Passeranno più di 10 anni prima che questo desiderio si avveri.


Anno Domini 1101 giugno 2 miglia ad Ovest di Gerusalemme.
Il lamento del Muezzin si insinua insistentemente nella testa dei crocesignati in attesa sotto il sole cocente. Rivoli di sudore scendono copiosi dagli elmetti in ferro e si infilano nelle uniformi impolverate dalla marcia notturna.
E’ appena l’alba, ma la temperatura è già intollerabile.
I volti, della soldataglia giunta da S. Giovanni d’Acri, sono segnati dalla fatica e dalla tensione. I preti al seguito della spedizione intonano salmi ad alta voce in un’assurda gara per vincere la preghiera islamica. Tutt’intorno il territorio desolato, è spazzato da un vento caldo che spacca le labbra. Sul limitare della strada restano innumerevoli masserizie, testimoni della precipitosa fuga verso la città della popolazione circostante, all’arrivo dell’armata crociata.
Gualtiero Famaccini sembra quasi voler divorare con gli occhi la città che gli si para davanti. Gerusalemme! Simbolo della Cristianità. Il sogno di tutta una vita, si è avverato. Finalmente lui, umile arciere, è a poche miglia dal Santo Sepolcro. I suoi commilitoni, lo chiamano scherzosamente “Gualtiero il prete”. Non se ne è mai curato. Egli crede e sarà salvato. Dio gli ha indicato la strada. Conquistare Gerusalemme, Liberare il Santo Sepolcro dagli odiati mori. Questo è quanto.
Nato trentacinque anni prima, in un piccolo borgo nel marchesato di Ivrea, questo piccolo soldato, ha iniziato la sua carriera come novizio nel vicino monastero di Arnad. Ma la sua non è una fede contemplativa, bensì una missione. Portare il vero Credo ai selvaggi miscredenti. Quando un frate predicatore giunge al monastero, portando l’annunciazione della crociata, abbandona immediatamente il noviziato e si arruola nelle milizie del Gran Ducato di Milano come arciere. L’inizio non è privo di difficoltà. La sua inesperienza è di grave impaccio ai suoi progetti, ma la sua fede incrollabile e la convinzione di essere nel giusto gli fanno superare tutti gli ostacoli, fino a portarlo a Genova il giorno dell’imbarco per la Terra Santa. Non ha mai combattuto. Si è sempre rifiutato di impugnare le armi contro un qualsiasi cristiano. E’ sempre riuscito ad evitare lo scontro, non per vigliaccheria, per principio. I suoi compagni lo sanno ed incredibilmente lo hanno sempre protetto. Anche il suo comandante ne rispetta il motivo.
Ben quattro anni di viaggio non hanno scalfito minimamente la sua determinazione. Via mare fino a Tunisi per imbarcare altre truppe, poi a piedi fino ad Alessandria per evitare pericolosi pirati. Ancora per mare fino a S. Giovanni D’Acri dove una misteriosa epidemia ha costretto l’esercito ad una pausa forzata di un anno. Poi, finalmente l’ultima tappa per arrivare alla Città Santa. Dodici giorni di faticosa marcia nella desolazione quasi assoluta. Le brevi soste, nelle ore più calde, al riparo di qualche sparuto palmeto, facendo provvista d’acqua. Del nemico nessuna traccia. Solo il caldo e la polvere, onnipresenti e spietati.
Ora è giunto all’appuntamento decisivo che segnerà, nel bene o nel male, la sua esistenza. E’ qui per avere “la risposta”. Non sa cosa lo attende. Sa unicamente che il suo destino è questo e per il resto …Dio provvederà.
L’esercito crociato non è sostenuto dalla stessa baldanzosa eccitazione. La maggior parte si appoggia malferma alle proprie armi, ammirando si, la Città, ma nello stesso tempo preoccupandosi per il prossimo combattimento.
Guida la Santa Spedizione Il fratello minore del Gran Duca, il Conte Puccio, famoso guerriero dal coraggio a tutta prova ma dal senso tattico-strategico non brillantissimo. Egli guida un esercito eterogeneo composto di una ventina di unità, in massima parte fanterie con due compagnie di arcieri e quattro squadroni di cavalleria pesante. Dietro a tutti, avanzano faticosamente le due catapulte e l’ariete, costruiti sulla costa, dove il legname abbonda. In tutto, circa 1900 uomini, seguiti da un codazzo di preti salmodianti e di pellegrini esaltati. La “Vera Croce” precede la moltitudine, scintillando come un piccolo sole.
Gualtiero si trova sulla estrema sinistra della lunga linea dello schieramento, disposto (erroneamente) parallelamente alle imponenti mura della città. Il suo compito sarà quello di tempestare di frecce i nemici sulle mura, proteggendo gli uomini che tenteranno di utilizzare le scale per conquistarle.
Il conte Puccio sta cominciando solo ora ad organizzare i suoi reparti, quando improvvisamente le massicce porte di Gerusalemme si aprono, vomitando addosso ai crociati, colti alla sprovvista, centinaia di soldati urlanti.
Molti reparti crociati sono presi dal panico e neppure tentano una qualche resistenza. Prima una poi due compagnie di fanti della milizia si danno alla fuga, inseguite e decimate da altrettanti squadroni di arcieri a cavallo musulmani.
L’unità di Gualtiero, composta da arcieri, tenta di fermare la marea nemica, cominciando freneticamente a tirare frecce ad altezza uomo contro una compagnia di fanti. Molti ne cadono, ma altrettanti sfuggono alla pioggia di morte e si lanciano su di essa. E’ il corpo a corpo. Gualtiero non ha mai ucciso prima d’ora, ma il fanatismo religioso, duplica le sue forze. Gettato l’arco, impugna una lunga spada, appartenuta ad un moro caduto e, con larghi fendenti, comincia ad avanzare nella calca. I suoi compagni cadono intorno a lui come grano falciato. Tre arabi gli sono addosso. Un colpo di piatto lo colpisce sull’elmetto di ferro, stordendolo temporaneamente, ma salvandogli la vita, in quanto i nemici, credendolo morto, passano oltre. Si rialza, furente e si getta nuovamente nella mischia. Una sciabolata, giunta da chissà quale direzione, gli apre una profonda ferita in volto. Non vede più nulla dall’occhio destro, e quando ritrae la manica che aveva usata per tergersi il viso, la scopre copiosamente bagnata di sangue. Un altro fendente lo raggiunge alla spalla, un altro alla coscia, ma lui, continua a battersi con la forza della disperazione. Si trascina sulla carcassa di un cavallo e sedutosi continua a battersi roteando la spada.
Finalmente un contingente di fanteria pesante crociata interviene in quella zona della battaglia, liberandola dai nemici che volgono in fuga. Cosa può mai essere successo?
Semplicemente, il Conte, vista la mala parata, ha deciso di giocarsi il tutto per tutto. Il suo fianco sinistro era stato travolto dagli arcieri a cavallo arabi, ma il resto dello schieramento sembrava tenere. Il nemico poi, non aveva approfittato del proprio sfondamento, in quanto i due squadroni di cavalleria leggera, non si erano spinti alle spalle dell’esercito crociato. La fanteria avversaria era decisamente lenta per effettuare una manovra di aggiramento sul fianco e si accontentava di massacrare i reparti superstiti che ancora resistevano in quel punto.
Chiamato il suo attendente, il Conte Puccio aveva ordinato l’attacco simultaneo di tutto lo schieramento. Le catapulte avevano cominciato a tempestare di proiettili i reparti appiedati che uscivano dalla città e la compagnia di arcieri superstite, era stata arretrata per coprire l’assalto generale.
Con lentezza ma inesorabilmente, il fianco destro crocesignato, avanza fendendo la marea nemica, che, dapprima si arresta poi si scompone in mille rivoli di fuggiaschi. Dopodiché lo stesso fianco destro si volge verso il centro, prendendo alle spalle numerose compagnie di fanteria moresche. Anche queste, prese dal panico, cedono e cercano riparo oltre le mura perimetrali di Gerusalemme. Tutti gli squadroni di cavalleria investono, poi, gli arcieri a cavallo musulmani, che sono massacrati, impossibilitati alla fuga dall’accerchiamento cristiano.
Rimane solo il fianco sinistro, che ancora si batte con vigore. Mentre tutta la cavalleria crociata e una grossa parte dell’esercito, insegue i fuggiaschi all’interno della Città Santa, due unità di fanteria pesante vengono inviate di corsa nella zona critica. Affrontano i resti di ben sei compagnie di fanteria avversaria, ne fanno strage e si posizionano nelle vicinanze delle mura ormai conquistate.
Gualtiero nel frattempo si è rialzato. Nell’unico occhio che ancora possiede, brilla una determinazione che sconfina nel fanatismo, nella follia. Appoggiandosi ad una lancia si dirige verso la porta principale, incurante del massacro che continua tutt’intorno. Deve assolutamente essere presente, quando Gerusalemme sarà resa Cristiana. “Deus Volt!” continua a ripetersi in una monotona litania.
Raggiunge, finalmente, la strada principale. Ormai si combatte solo sporadicamente. I nemici sono pressoché annientati. Con orrore si accorge che il mare di cadaveri che lastrica le strade, non è formato da guerrieri arabi. Migliaia sono i corpi di donne, vecchi, bambini cui le spade hanno inferto un’orribile morte. Sbigottito e senza parole cerca con lo sguardo un motivo plausibile per un simile massacro. Poco distante, proprio nelle vicinanze del Santo Sepolcro, un gruppo di cavalieri sta trucidando un’intera famiglia di arabi. Urla, inveisce contro di loro, vorrebbe spiegargli che non si può guadagnare la salvezza e la vita eterna, facendo scorrere il sangue di tanti innocenti. Ma è tutto inutile. Il tremendo macello si compie in tutte le vie della città. Lo stesso Conte Puccio, anche se volesse, non potrebbe fermarlo. Sono gli stessi preti al seguito dell’esercito, dapprima fuggiti alla vista dell’attacco nemico ed in seguito entrati baldanzosamente in città, a chiedere a gran voce, il massacro di tutti i musulmani per purificare Gerusalemme dalla presenza islamica.
La ferocia dei crociati non si spiega nemmeno con il computo delle perdite sofferte, sebbene elevate. Il contingente Cristiano ha sofferto circa 870 morti. Quello arabo, la totalità dei suoi componenti: 1330 uomini. Non sono stati fatti prigionieri.
Il genocidio durerà ancora tre giorni e gli incendi nella città saccheggiata altrettanto, prima che la sete di sangue si plachi ed il Conte decida di mostrarsi misericordioso nei riguardi dei superstiti.
Gualtiero non potrà assistere a ciò, e non potrà nemmeno assistere alla solenne messa di ringraziamento. Egli giace in una sorta di ospedale di fortuna, insieme con altre centinaia di feriti. Alla fine, la perdita di sangue dalle innumerevoli ferite, ne ha causato lo svenimento. E’ stato rinvenuto nella notte da una pattuglia, accanto al Santo Sepolcro, svenuto nella posizione della preghiera. Anche una volta guarito, niente sarà più come prima per lui. L’occhio destro irrimediabilmente perduto e la marcata cicatrice sul volto lo identificheranno come uno dei tanti soldati che vagano in cerca di ingaggio. Ma la ferita più profonda e dolorosa è nella sua anima. Egli ha ripudiato la sua fede, si è allontanato da quel Dio che lo vorrebbe partecipe e complice del massacro di innocenti perpetuato nella Città Santa.
Da quel giorno non verrà più chiamato “il prete”. Da quel giorno nessuno lo sentirà più pregare. Mille battaglie lo aspettano. Ma nessuna verrà da lui combattuta con il grido “Deus Volt!”.

Anno domini 1115 febbraio nei dintorni di Pavia
E’ calata ormai la notte. Nella taverna gli ultimi avventori si preparano a tornare a casa. I tavoli sono ripuliti alla meno peggio. Solo cinque uomini sembra non vogliano andarsene. Quattro di loro hanno l’aspetto di vecchi soldati. Uno, è un ragazzino di campagna che li guarda imbambolato, mentre questi narrano di guerre e bottino.
Ad un tratto, l’anziano fante, di nome Ildebrando, emette un lungo sbadiglio.
“ Bene ragazzo mio…ora sai cosa ti sei perso. L’ora è tarda e per quel che mi riguarda me ne andrò a dormire. Non mi resta che augurarti buona fortuna. Dovessero riaprire gli arruolamenti, ricordati di non essere troppo felice di diventare soldato. Non sempre si ha la possibilità di restare vivi per godere della paga. Addio sbarbatello”. Detto questo, come ad un comando, tutti e quattro i soldati si alzano ed escono nella buia nebbia.
Berengario, quella notte sogna di battaglie e di vittorie.
Il mattino seguente, chino sul campo, intento a strappare pochi ciuffi di crescione, esce dall’apatia, con la voce di un bardo che annuncia la guerra contro Venezia. Dice che il Gran Duca richiede a tutti gli uomini arruolabili, di presentarsi nei centri di reclutamento, il più presto possibile.
Berengario pensa alle parole dette, la sera prima, dal vecchio soldato. Poi riflette sulla sua attuale condizione di contadino, schiavo e condannato ad una vita monotona e senza scopo.
Un istante dopo, corso nella sua misera capanna, raccolte le sue misere cose in un piccolo fagotto, si avvia verso Milano. Gli sembra quasi che, quei quattro vecchietti, gli marcino al fianco.

...meglio una fine spaventosa che uno spavento senza fine!
20/03/2007 20:07
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Re: Re:

Scritto da: Celioth 20/03/2007 14.14


In che senso "l'unica fazione in grado di unificare l'Italia"? C'erano anche Milanesi e Siciliani (che dopotutto di Non-italiano avevano solo chi era al potere...i normanni...almeno all'inizio).




A parte che il fatto di avere un popolo straniero al potere è un buon motivo per non identificarli come "italiani", in medieval... Poi, storicamente, solo i veneziani hanno avuto delle reali concrete possibilità di unificare l'Italia, e non si può dire non ci abbiano provato, almeno fino alla disfatta di Agnadello dove usarono per la prima volta, unico popolo italiano dai tempi di Roma, la parola "Italia!" come grido di guerra.

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21/03/2007 21:38
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Capitolo X la II battaglia di Zara
Il 15 Febbraio del 1135 le truppe di Costantino di Myla spinsero l'ariete contro il portone del primo muro del castello di Zara, una seconda unità mise in movimento una torre mobile mentre un terzo gruppo mise mano alle scale. Dagli spalti i Veneziani colpirono ripetutamente la torre con frecce infuocate che, alla fine, la bruciarono. L'ariete e le scale però giunsero a destinazione e gli imperiali misero piede sulle mura del castello. I lanceri dovettero subito affontare i temibili cavalieri appiedati e fu uno scontro durissimo; intanto il portone fu abbattuto e la cavalleria mercenaria imperiale si gettò sui 60 cavalieri appiedati che presidiavano l'ingresso; i nostri balestrieri iniziarono a tirare senza sosta, le unità di cavalieri appiedati veneti (120 uomini) resistettero ferocemente agli assalti, la cavalleria pesante fu distrutta, ma loro continuavano a resistere aiutati dalla guardia del doge. Costantino allora impegnò la sua guardia e si gettò nella mischia.

Dopo feroce lotta e numerosissime perdite Iddio arrise ai nostri, una freccia uccise il doge, ma i suoi continuarono fino al loro totale sterminio, la prima cerchia era presa ma le perdite erano tremende: i nostri avevano perso oltre 300 uomini (su 560 circa), i Veneziani solo 100 (su un totale di 160).

Costantino ordinò ai lanceri di prendere l'ariete e sfondare il secondo portone, il comando fu eseguito sotto nugoli di frecce che mietevano vittime tra i nostri. Crollato il secondo portone, tutta la nostra armata si gettò all'attacco guidata dallo stratego in prima linea; lo scontro fu durissimo, i cavalieri appiedati veneti rimasti opposero una feroce resistenza e solo alla fine la vittoria fu imperiale ma a gravissimo prezzo: per eliminare 260 Veneziani erano stati perduti 420 uomini su 560. Costantino spedì un messaggio di vittoria al basileus e già pensava di arruolare nuove truppe.

Trascorsero sei mesi nel restauro delle mura, quando giunse un evento imprevisto, un esercito veneto di 780 uomini mise sotto assedio Zara difesa solo da 140 uomini (quasi tutti mercenari), Costantino, vedendo tutti quei nemici, capì che la sua ultima ora era molto vicina.

Quando la notizia raggiunse Ragusa, il capitano Basilio pensò di muovere in aiuto dello stratego ma fu impedito da un nuovo evento: un esercito pontificio, sbarcato presso la città, attaccò e mise sotto assedio Ragusa, Basilio avrebbe dovuto pensare a se stesso prima che a chiunque altro.

Intanto il doux di Naupatto, Alessio di Efeso, uscì dalla sua città, arruolò dei mercenari e assalì due bande di ribelli che bloccavano le strade che uniscono il Thema di Nicopoli al resto dell'Impero, durante queste operazioni un esercito milanese, sbarcato in terra greca, mise sotto assedio Naupatto priva del suo doux, sempre quel mese di Giungno vide i Siciliani attaccare, dopo anni di tregua, Iraklion, mentre un'armata imperiale, salpata da Sinope, sbarcava in Crimea per riannettere la città di Cherson all'Impero.
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22/03/2007 01:46
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Grandi veneziani, restituite Zara all'Italia!!

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22/03/2007 21:57
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Capitolo XI la III battaglia di Zara
I sei mesi seguenti furono di angoscia e attesa per tutto l'Impero, le province occidentali erano sotto attacco, ma questo non impedì al basileus di concepire nuovi, arditi piani: mentre Cherson (ormai un semplice villaggio) era rapidamente riannessa (con il plauso della nobiltà che aveva proposto l'operazione), il generale Maurizio di Nicea si metteva in marcia da Dorileo verso Smirne con il migliore esercito che l'Impero potesse mobilitare per riprendere Adana (la marcia però riuscì lenta per la presenza delle catapulte), la seconda parte dell'armata partì da Laodicea e raggiunse a piedi velocemente Attalia dove avrebbe incontrato il gruppo principale. Giunto al porto di Attalia, questo contingente fu costretto a intervenire per difendre la città assalita a sorpresa dai Turchi. I nemici furono sbaragliati.

Si decise, intanto, di assalire la città di Angres, primo insediamento magiaro oltre il Danubio da cui gli Ungheresi sferravano i loro attacchi contro Tarnovo. Dopo aver eliminato due armate magiare che bloccavano il percorso, l'armata del doux Alessio di Adrianopoli conquistò velocemente la città, la razziò e poi la donò ai Germani, questo gesto rafforzò l'allenza con loro e creò un territorio amico al confine ungherese.

Gli emissari intano giunsero a una tregua con i Pontifici e i Siciliani , che però rimasero sul suolo imperiale; i Milanesi invece furono affrontati dal doux Alessio di Efeso che, aiutato dal presidio di Naupatto, conseguì una spendida vittoria; l'armata milanese fu distrutta, anche perchè la flotta imperiale provvide ad affondare la flotta che aveva trasportato l'esercito invasore. I pochi superstiti furono deportati in Asia per non fare più ritorno. Subito, approfittando della tregua, i mercenari furono imbarcati a Naupatto e portati a rinforzare il presidio di Creta (che temeva per la presenza della grande armata siciliana).

A Zara intanto si aspettava l'attacco veneto. Costantino si ritirava sempre nella cappella a pregare per la salvezza dei suoi uomini e vi restava spesso fino alle prime luci dell'alba. Lì lo trovò il soldato che, all'alba del 7 Gennaio del 1136, lo avvisò che i Veneziani si avvicinavano alle mura con gli arieti.

Subito suonò l'allarme, il doux fece schierare tutti gli arceri sulla prima cinta, visto che i Veneti attaccavano con un solo ariete per volta c'era la speranza di bruciare le armi d'assedio una dopo l'altra. Gli arceri lanciarono le frecce infuocate ma il maledetto ariete continuò nella sua marcia (anche se molti nemici furono uccisi dai nostri lanci). Quando l'arma fu appoggiata al portone, Costantino ordinò a tutti gli uomini di ripiegare nella seconda cinta. Mentre le truppe si ritiravano il portone cedette, 30 lanceri furono presi in mezzo dai Veneziani e massacrati, il resto si mise in salvo nelle mura.

Dagli spalti gli arceri continuarono a tirare frecce infuocate contro l'ariete che però non bruciò, evidentemetnte il nemico lo aveva reso refrattario al fuoco.
Quando il portone della seconda cinta stava per cedere, Costantino ordinò a tutti gli uomini di concentrarsi sotto le arcate che danno l'accesso alla piazza d'armi davanti al castello, lì ci sarebbe stato lo scontro finale.

Mentre il portone vacillava sotto i colpi, Costantino disse a gran voce: "Iddio, Signore degli eserciti, se mai ho fatto cosa a te gradita, risparmia questi uomini, se proprio qualcuno deve morire oggi ecco, io dedico la mia vita a Te". Quindi si udì il rumore che annunciava che le porte avevano ceduto e poi l'urlo dei Veneziani che entravano nella cinta.

Balestrieri e arceri, dalla piazza, iniziarono a tirare dardi senza sosta mentre la fanteria e la guardia del doux fecero un tappo sotto i due archi d'accesso; lo scontro fu durissimo, a decine e decine i Veneziani si gettavano contro i nostri, ma la strettoia causata dagli archi li bloccava permettendo agli imperiali di resistere, purtroppo le truppe nemiche erano troppo numerose e pian piano i nostri diminuirono inesorabilmente. Man mano che finivano i colpi i balestrieri e gli arceri si gettarono nella mischia con i loro pugnali lottando come leoni feroci. Alla fine solo il doux e 80 arcieri restavano nella mischia, Costantino gridò: Signore eccomi sono tuo!" e si gettò nel folto dei nemici combattendo senza sosta. Il suo cavallo fu ucciso, Costantino cadde, si rialzò e proseguì lo scontro, alla fine però fu messo in mezzo da sei nemici che lo sopraffecero; la battaglia era quasi perduta quando uno degli arceri, Basilio, uccise il capitano veneto Predolin. Ciò fece vacillare i nemici che smisero di lottare e si diedero alla fuga. Zara era rimasta imperiale, il presidio era di 68 uomini, compresi i feriti, e tutti mercenari, il doux Costantio di Myla si era immolato per i suoi uomini e Dio aveva accolto il suo sacrificio. I nemici persero 578 uomini, i superstiti si ritirarono a Zagabria.

Pochi giorni dopo giunsero i rinforzi da Ragusa e un messaggio del basileus; il sovrano permise che Costantino di Myla fosse sepolto nella cappella del castello come suo protettore, e col passare del tempo i soldati iniziarono a venerarne le spoglie come se fosse un santo (cosa che continua fino ad oggi).

Il 15 Gennaio giunse una notizia che destò preoccupazione, il Papa indisse una nuova crociata contro l'Oriente, il suo scopo era sottrare Gerusalemme al califfo d'Egitto. La cosa preoccupante era che come molti anni prima orde di barbari occidentali (per il momento Danesi, Polacchi, Veneziani e Germani) avrebbero oltrepassato i confini imperiali con non si sa quale fine, ma ci fu anche un risvolto positivo, l'armata pontificia che sostava presso Ragusa partì anche lei per la crociata liberando la città dall'angoscia.

In qui giorni le truppe di Maurzio di Nicea, salpate da Smirne, raccolsero il resto dell'armata al porto di Attalia e, dopo essere scampati all'attacco di una flotta veneta, misero piede a Cipro, pronte ad attaccare Adana appena si fossero riposate.
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22/03/2007 23:53
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Il corpo di Costantino di Myla farà la stessa fine dello scheletro di basilio II, appollaiato su un palazzo dai crociati, con un flauto fra i denti. [SM=x506658]

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25/03/2007 14:15
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Capitolo XII il decennio 1136-1146
Mentre le varie armate crociate si diriggevano verso l'Asia, Zara non poteva restare tranquilla. La sua posizione, infatti, la rendeva il punto dell'Impero più vicino all'Italia e a Venezia, questa era una cosa che il doge non poteva tollerare, così nell'Aprile del 1136 una nuova armata mise sotto assedio il casello difeso dal nuovo doux, Gregorio di Atene, un giovane che faceva molto ben sperare per il futuro.

Negli stessi giorni l'armata orientale salpò da Cipro e, dopo un breve tragitto, mise piede nella Piccola Armenia e pose l'assedio ad Adana praticamente priva di difensori.

I sei mesi seguenti trascorsero in alacre attività, finché il 6 Ottobre le truppe diedero l'assalto alle mura, irruppero dentro la città, stermirarono l'esiguo presidio e riunirono Adana all'Impero. Nel foro fu eretto un monumento a ricordo dei valorosi caduti durante la conquista turca. Maurizio di Nicea era il nuovo doux della Piccola Armenia.

Pochi giorni dopo i Veneziani diedero l'assalto a Zara, il castello, ben presidiato, resistette egregiamente mentre Gregorio si ricoprì d'onore con le sue prodigiose gesta (con la sua guardia uscì dalle mura e uccise i 130 uomini che guidavano i due arieti contro le porte dell'insediamento). Zara così si salvò.

Il 1137 vide eventi funesti, i Turchi misero sotto assedio Adana, due nuove armate venete assediarono contemporaneamente Zara, altre due armate pontifice (ben 2300 uomini) misero l'assedio a Ragusa. Intanto un sacerdote islamico proclamò la guerra santa contro l'Impero, il bersaglio era la nostra santa Capitale, Costantinopoli, l'imperatore ordinò di rinforzare le mura e far convergere altre truppe da Tarnovo.

Intanto delle unità mercenarie, uscite da Cherson, presero Caffa, tutta la Crimea era di nuovo romea.

Agosto del 1138. Le truppe venete assalirono Zara il 5 del mese, le truppe di Gregorio combatterono valorosamente e, con pochissime perdite, restinsero al duplice assalto, i Veneziani persero quasi 1000 uomini, per loro fu un massacro.

Ad Adana, Maurizio non volle attendere l'assalto nemico, uscì dalle mura caricò i Turchi e li vinse, la città era salva. I Turchi però non persero tempo e assediarono Sinope, intanto un'armata mora sbarcava a Creta.

Gli anni seguenti trascorsero tranquilli (una nostra spia, ammalatasi di peste, visitò tutte le principali città turche diffondendo il contaggio tra quei maledetti), nel Giugno del 1142 Sinope fu assalita, ma i Turchi furono rspinti, lo stesso non accadde a Ragusa, le numerose truppe papali travolsero il presidio e presero la città, il basileus fu sconvolto dalla notizia e ordino al principe Giovanni di arruolare un esercito mercenario e marciare verso la città.

Dopo la conquista di Ragusa le truppe pontifice si divisero, l'armata più grande iniziò a muovere verso Durazzo, la più piccola si divise in due, una andò contro Zara, l'altra rimase a difendere Ragusa. Era quello che si attendeva.

Il 15 Aprile del 1143 la prima armata pontificia raggiunse Zara, Gregorio uscì con tutto il suo esercito, affrontò il nemico e lo umiliò; intanto l'emissario Basilio di Nicea corrompeva il presidio di Ragusa che consegnava la città per 30.000 fiorini, subito delle truppe furono arruolate per difendere l'insediamento.

Il 21 Maggio del 1144 l'armata turca della jihad mise sotto assedio la nostra Capitale, ma il basileus uscì dalle mura e li vinse facilmente. Poco dopo i Mori misero sotto assedio Iraklion.

L'inverno del 1145 vide le truppe pontifice assediare di nuovo Ragusa, mentre la Jihad egiziana si avvicinava agli Stretti.

Il 29 Aprile del 1146 l'armata di Giovanni Comneno raggiunse Ragusa, pronta ad affrontare le truppe papali.

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Se non altro i pontifici daranno tempo a Venezia di riprendersi delle perdite subite, rafforzare le sue posizioni, e poi, calare in forze in Dalmazia.

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beh, novità?

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Capitolo XIII le battaglie di Iraklion e Costantinopoli
L'arrivo delle truppe del principe Giovanni paralizzò i Pontifici; il Comneno pensò così di inviare un emissario che riuscì a stipulare una tregua col nemico (che però non si rimbarcò, restando presso Ragusa). Di conseguenza l'armata del principe rimase in zona per ogni evenienza.

Il 6 Giugno il presidio di Iraklion tentò una sortita: mentre le truppe uscivano dalla porta est, gli arceri si posizionarono sulle mura di sud-est. L'armata mora era in buona parte composta da arceri e balestrieri che iniziarono a causare vittime ai nostri, quando però si giunse allo scontro diretto la nostra fanteria iniziò ad eliminare i nemici che si ritirarono verso sud-est finendo sotto i colpi delle torri e dei nostri arceri, intanto il doux e la cavalleria mercenaria diedero una carica travolgendo tutto e tutti; lo stesso generale moro fu travolto e ucciso, i suoi uomini si volsero in fuga inseguiti e massacrati dai nostri: la vittoria era totale.

In quei giorni una grande armata turca sbarcò all'improvviso davanti alla Capitale e l'assalì. Il nemico era numeroso (2340 uomini) giudato dal sultano e da suo figlio. Il basileus si era recato a Smirne e il comando era affidato al mega duca Maurizio. Questi schierò tutto il presidio nel foro di Costantino e attese l'attacco. Le mura, senza uomini sugli spalti, furono superate velocemente, i Turchi dilagarono fino al foro,qui trovarono le nostre truppe che li affrontarono, mentre arceri, balestrieri e catapulte tiravano senza sosta. I morti furono numerosi ma i nemici non si arresero, il sultano e suo figlio caricarono i nostri fanti che iniziarono a vacillare. Maurizio si gettò nella mischia e, poco a poco, la situazione si stabilizzò, il figlio del sultano fu fatto a pezzi col suo cavallo da un lancere imperiale, suo padre, gonfio d'ira, si gettò nel fitto dei nostri uomini finché non cadde da cavallo e fu fatto prigioniero. I suoi continuarono a lottare ferocemente finchè la stanchezza e lo scoramento non li colpirono mettendoli in fuga. La Vergine aveva dato all'Impero una splendida vittoria. Il basileus pensò di riscattare il sultano poi, però, il ricordo di Manzikert gli affiorò alla mente e diede il fatale ordine: la testa del sultano fu issata sulle mura marittime in direzione dell'Asia come monito a tutti gli infedeli. L'ora della riscossa era arrivata; tre giorni dopo il basileus si sposò con Maria di Smirne che fu incoronata basilissa.

Nel Settembre del 1146 Angres si ribellò e cacciò il presidio tedesco che la teneva da quando l'Impero l'aveva donata ai Germani, neanche sei mesi dopo un'armata magiara l'assalì e la restituì al regno d'Ungheria.

Come era prevedibile la città divenne ricettacolo delle truppe nemiche che, nel Marzo del 1148 asalirono Tarnovo. Il castello però era più che pronto all'evenienza e seppe respingere facilmente il nemico;lo stesso avvenne poco dopo a Serdica. L'Impero, sebbene assalito su ogni fronte resisteva, anzi, nel Luglio di quell'anno le truppe di Adana salparono dalla Piccola Armenia e sbarcarono, dopo breve viaggio, nel porto di Seleucia di Pieria, da lì a poco tempo avrebbero marciato contro i Veneziani per riprendere la terza città dell'Impero che da troppo era separata dalla patria, Antiochia di Siria.
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