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PARTI

Ultimo Aggiornamento: 28/10/2006 23:32
26/06/2005 11:27
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Lo stato della Partia (Parthia) sorse intorno al 247 a.C. per opera di Arsace I ed era costituito su un modello di tipo feudale contraddistinto da un insieme di stati vassalli, parzialmente autonomi, che dipendevano dai sovrani partici. Nel periodo neroniano il contrasto con i Parti si riaccese. Il nodo centrale della discordia era, nuovamente, l’Armenia. Il possesso di questo stato cuscinetto era di vitale importanza se si voleva contrastare l’impero arsacide in quanto garantiva ai Romani una dislocazione delle forze su un fronte meno esteso e la possibilità di tenere concentrate le legioni in Siria. Infatti, se l’Armenia fosse rimasta sotto la sovranità romana le legioni dislocate nel settore siriano avrebbero difeso più facilmente dagli attacchi dei Parti le regioni del Ponto, della Cappadocia, della Commagene e la medesima Siria utilizzando il corso settentrionale dell’Eufrate che consentiva un rapido accesso verso queste regioni, mentre i Parti avrebbero dovuto usare le impervie strade dell’Armenia se volevano colpire le zone sopraindicate. Al contrario la situazione sarebbe risultata favorevole ai Parti se questi fossero stati liberi di dislocare le loro truppe nel territorio armeno in quanto la loro presenza a ridosso dei territori del Ponto e della Cappadocia obbligava i Romani a presiedere stabilmente il confine tra queste zone e l’Armenia sacrificando, eventualmente, il settore siriano e non consentendo più la concentrazione delle forze in Siria cosa che poteva avvenire, come abbiamo detto, se l’Armenia fosse stata sotto il controllo romano (23). Nel periodo neroniano la situazione, di fatto, sembrò evolversi a favore dei Parti in quanto il re di questo stato (Vologese I), aveva deposto Radamisto e posto sul trono dell’Armenia il fratello Tiridate. Da questi eventi si evince che l’esercito partico poteva spostarsi in Armenia cosa, come abbiamo detto, strategicamente pericolosa per i Romani. Per ristabilire lo status quo ante nel territorio armeno i Romani inviarono Gn. Domizio Corbulone (55 d.C.). Al comando di tre legioni (III Gallica, VI Ferrata e IV Scytica) Corbulone occupò le città armene di Artaxata e Tigranocerta (58 d.C.), allontanò Tiridate e pose sul trono d’Armenia Tigrane V (59-60 d.C.), un re che godeva la fiducia romana (24). Corbulone, però, si era dimostrato propenso ad accordarsi con i Parti giudicando non conveniente proseguire la guerra ad oltranza e dopo aver chiesto di essere esonerato dal comando in Armenia propose ai Parti una tregua secondo la quale i due imperi si impegnavano ad evacuare le truppe dall’Armenia. Corbulone, in seguito, si ritirò sull’Eufrate per consolidare il confine della Siria e prevenire i possibili attacchi dei Parti in questo settore. Il Senato di Roma, però, non condivideva la politica intrapresa da Corbulone e decise di ricorrere ad una soluzione di forza inviando in Armenia L. Cesenio Peto con il proposito di occupare la regione (25). Quest’ultimo, però, venne sconfitto dai Parti che posero sotto assedio le legioni romane stanziate a Randeia, nel mentre Peto attendeva l’arrivo degli 8.000 uomini che erano stati richiesti in aiuto a Corbulone. Gli Arsacidi avevano deciso, infatti, di intervenire militarmente in Armenia per sostenere gli interessi di Tiridate, il fratello di Vologese, su questo regno evitando, invece, di attaccare la Siria dove Corbulone stava rafforzando le difese. Dopo il disastro di Peto, i Parti avanzarono delle profferte di pace che il governo di Roma ritenne di rifiutare perché troppo onerose in quanto includevano lo sgombero di tutte le truppe romane stanziate in Armenia e la consegna di tutti i castelli da essi occupati (26). La situazione rese, quindi, necessario il richiamo di Peto e il nuovo intervento di Corbulone. In realtà, però, non vi fu un vero e proprio scontro con i Parti, bensì un’intesa. Il comandante romano, infatti, dopo aver distrutto i castelli dei nobili armeni che si erano dimostrati ostili con Roma decise di accordarsi con gli Arsacidi, senza muovere guerra, per risolvere pacificamente il problema dell’Armenia: questa regione sarebbe stata amministrata in condominio da Romani e Parti e Tiridate avrebbe ricevuto, nell’Urbe, la corona di re d’Armenia per investitura dello stesso Nerone. Secondo Tacito il rapporto tra il sovrano d’Armenia e Roma fu contrassegnato da rapporti di parità e di equità secondo anche il desiderio del sovrano arsacide: " Vologese aveva inviato messi a Corbulone, per impetrare che Tiridate non dovesse portare alcun segno di servitù.. e che a Roma fosse trattato con gli stessi onori che si rendevano ai consoli", Tac., Annali, XV, 31). Cassio Dione ritiene, invece, che Tiritade venne incoronato a Roma in una posizione di subalternità rispetto ai Romani ("O signore, io figlio di Arsace, fratello dei re Vologese e Pacoro, sono tuo schiavo. Sono venuto a te, che sei il mio dio e per adorarti come Mithra, ed io sarò quello che tu vorrai. Tu sei il mio destino, tu la mia sorte" Cassio Dione, Storie, LXIII.4.1-5.2 ), ma questa ipotesi non mi sembra attendibile dal momento che l’incontro tra Corbulone e Tiridate e la successiva cerimonia dell’incoronazione avvenne dopo degli eventi bellici che erano stati sostanzialmente favorevoli agli arsacidi (Tacito, Annali, XV, 29) e il nuovo intervento di Corbulone non fu una vera e propria spedizione militare contro i Parti bensì una "entente cordiale" per risolvere su un piano di parità la questione armena (27). La formula, inoltre, recitata da Tiridate, nel passo di Dione, si ispirava ad un tipo di cerimoniale preesistente adottato dai re vassalli come atto di omaggio nei riguardi dei re arsacidi e quindi la manifestazione di sottomissione pronunciata dal re d’Armenia si inserisce nell’ambito di una tradizione diplomatica (28). Dopo questi avvenimenti la situazione, dal punto di vista strategico, era ancora favorevole ai Romani in quanto la tranquillità del settore armeno non rendeva indispensabile presidiare la Cappadocia e il Ponto con eserciti di grossa entità e quindi il distaccamento in Siria, che rappresentava il nucleo più rilevante dell’esercito romano in Oriente, poteva rimanere pressoché invariato. In particolare si determinava che lungo il corso settentrionale dell’Eufrate erano presenti una fascia di stati cuscinetto che proteggevano il confine dagli attacchi a bassa intensità, che potevano essere sferrati dai Parti. Questi stati erano l’Armenia, l’Osroene, la Commagene e la Sofene. Per esigenze che gli studiosi hanno interpretato in chiave di centralizzazione amministrativa, Vespasiano (69-79 d.C.) smantellò il sistema clientelare e ciò determinò, in Oriente, che gli stati clienti dell’Anatolia, Siria, dell’Armenia minore, Sofene e Commagene furono annessi ai territori imperiali. Di conseguenza tutto il settore dell’Eufrate settentrionale a ridosso del Ponto, Armenia minore e Commagene, dovette essere presidiato direttamente dalle legioni e si rese necessaria la costruzione di una rete stradale per facilitare gli spostamenti dei contingenti militari. A questo maggiore impegno militare in Oriente, che si traduce con una crescita delle legioni nel settore orientale, non si acompagna una crescita significativa del numero di tutte lelegioni (29). La crescita suddetta, poi, non va sottostimata in relazione al fronte settentrionale (30). Lo smantellamento del sistema degli stati clienti operato da Vespasiano non fu totale perché stati come l’Osroene e l’Armenia furono ancora retti da questo ordinamento, ma la logica della difesa dei confini attraverso gli stati cuscinetto era stata abbandonata con la politica delle annessioni e della difesa diretta del confine dell’alto Eufratre (31).
Lo scontro con i Parti riprese sotto l’imperatore Traiano (98-117 d.C.) e fu determinato, ancora una volta, dal contrasto tra Romani e Parti sulla questione dell’Armenia. Il re dei Parti Osroe (Cosroe), aveva deposto dal trono di Armenia il re Axedares, gradito ai Romani, sostituendolo con Parthamasiri, ma senza aver ottenuto l’approvazione di Roma. L’azione diplomatica per tentare di arrivare ad un accordo risultò fallimentare e la guerra divenne inevitabile. Il conflitto rappresentò per i Romani un occasione per migliorare i confini orientali al fine di creare una linea meglio difendibile, ed in economia di forze, lungo un asse che spingeva sensibilmente verso oriente il confine dell’alto Eufrate: il limes sarebbe passato lungo il fiume Khamur, Jebel Sinjar, Tigri settentrionale ed Armenia. Non è da escludere, però, che la guerra contro lo stato arsacide possa essere stata motivata da finalità economiche, come ad esempio l’esigenza di aprirsi una via sicura per estendere i commerci verso l’India (32). La campagna contro i Parti fu combattuta dal 114 al 117 d.C. e nelle prime fasi si concluse con la rapida occupazione dell’Armenia (33) e dei punti nodali della Mesopotamia, come per esempio Nisibi, prima che i Parti potessero intervenire per difenderli. In un secondo momento Traiano prese la città di Batnae e si recò ad Edessa per passare l’inverno. Con la seconda campagna, condotta nel 115, Traiano entrò in contatto con l’esercito arsacide, ma dopo aver condotto le legioni oltre l’Eufrate e il Tigri l’imperatore decise di ritirarsi ad Antiochia (inverno del 115/116) rimandando il conflitto all’anno successivo. Nella primavera del 116, infatti, inizio la terza campagna che si concluse con la conquista di Ctesifonte. Caduta la capitale dello stato partico, il re Osroe si diede alla fuga e Traiano si impossessò del del suo trono d’oro e si spinse fino al Golfo Persico. La conseguenza fu che l’impero partico divenne vassallo di Roma (34), fu ridotto nella sua estensione territoriale e un nuovo re cliente (Parthamaspate), gradito ai Romani, fu posto alla guida del regno. Per l’occasione furono emesse delle monete commemorative che riportavano la scritta "PARTICA CAPTA" e lo stesso Traiano assunse nel 116 l’attributo di Particus ed una delle scene dell’arco di Benevento allude a questo evento (35). Successivamente Traiano, nel corso della sua ritirata, morì in Cilicia (117 d.C.) e gran parte delle province che aveva conquistato si ribellarono. Adriano decise di abbandonare le recenti conquiste che si estendevano oltre l’Eufrate forse perché valutò che non era conveniente espandere l’impero romano oltre certi limiti. L’Armenia, in particolare, non fu ceduta completamente, ma ritornò nella sua antica condizione di Stato feudatario di Roma (36). I Parti, però, mal sopportavano la sovranità romana sull’Armenia e si stavano preparando ad occupare questa regione. Adriano intervenne personalmente accordandosi con il re dei Parti e scongiurò l’occupazione. Con Antonino Pio (138-161 d.C.) la situazione sembra ripetersi e anche questa volta lo scontro fu rimandato, ma l’imminenza della guerra spinse i Romani a rafforzare gli eserciti orientali (37).
Sotto Vologese IV i Parti sconfissero prima ad Elegeia il legato romano di Cappadocia (161 d.C.) e poi invasero l’Armenia ponendo sul trono Pacoro un principe a loro gradito (162 d.C.). I propositi espansionistici degli Arsacidi non si limitarono solo a questa regione perché in seguito oltrepassarono l’Eufrate per dirigersi in Siria dove sconfissero il legato romano Elio Attidio Corneliano che mori sul campo (38). Si rese necessario, quindi, l’intervento diretto di Lucio Vero, fratello adottivo di Marco Aurelio e associato da quest’ultimo al governo (39), il quale decise di usare tre legioni per combattere i Parti: la I Minervia (proveniente dalla Germania inferiore), la V Macedonica (dalla Mesia) e la II Audiutrix (dalla Pannonia), (40). A questo esercito vanno aggiunte le varie vexillationes: distaccamenti temporanei di soldati provenienti da altre legioni. Le offerte di pace inoltrate dai Romani non sortirono alcun effetto perché Vologese rifiutò le trattative. Se Lucio non fu all’altezza della situazione meglio di lui si comportarono i suoi generali: Stazio Prisco e Avidio Cassio. L’Armenia, infatti, fu riconquistata e Artaxata fu presa e distrutta da Prisco (163 d.C.). Nei pressi di questa città i Romani costruirono Kainepolis (o Valarsapat) che divenne la nuova capitale dell’Armenia e dopo aver allontanato Pacoro lo sostituirono con un re gradito dai romani: Soemo (Sohaemus), (41). Risolta la questione armena, la lotta riprese per ristabilire lo status quo ante in Siria e Mesopotamia. Gli scontri cominciarono lungo la riva dell’Eufrate e i Romani, dopo essersi scontrati con i Parti nei pressi di Sura, espugnarono una fortezza del nemico posta sulla riva sinistra dell’Eufrate e si diressero verso le città più importanti dello stato partico. Dopo aver sconfitto i Parti presso Dura Europus i Romani, guidati da Avidio Cassio, conquistarono Seleucia e dopo averla saccheggiata e incendiata (164-165 d.C.) occuparono e distrussero Ctesifonte (166 d.C.). Con la presa di quest’ulima città L. Vero, o meglio i sui generali, aveva quasi ripetuto le gesta di Traiano (42). Ma i Romani, nonostante questi successi, subirono le nefaste conseguenze di una epidemia di peste, che si diffuse nell’ Urbe ed in Italia portata dai soldati che erano ritornati in patria dopo che si concluse la campagna in Oriente. L’epidemia scoppiò nel 166 d. C. , probabilmente contratta durante la distruzione di Seleucia, e si protrasse per un ventennio e sembra, secondo le fonti, che a Roma morissero circa 2.000 persone al giorno nei periodi in cui la peste si scatenava con particolare virulenza (43). Circa trent’anni dopo i Parti, approfittando dei sommovimenti che avvenivano nelle province orientali per acclamare imperatore Pescennio Nigro, avevano promosso delle ribellioni contro il dominio romano nei regni dell’Osroene ed Adiabene ed avevano spinto i loro eserciti in Mesopotamia e forse anche in Armenia (44). In questa occasione dovette intervenire Settimio Severo (193-211 d.C.) che condusse due campagne contro i Parti, rispettivamente nel 195 e nel 197-199 d. C. Dopo aver eliminato il suo rivale Pescenio Nigro, Settimio marciò contro i Parti ma dopo aver ottenuto una prima vittoria nel 195, dovette ritornare in Occidente per sbarazzarsi di Albino, che nel frattempo aveva ottenuto l’acclamazione imperiale. Ritornato a Roma, Settimio partì per la Germania superiore per scontrarsi con il rivale. Eliminato Albino, Settimio ritornò nell’Urbe e prima di ripartire per l’Oriente reclutò tre nuove legioni per intraprendere la seconda campagna contro i Parti. Dopo aver posto il quartier generale a Nisibi (estate del 197), ordinò all’esercito di muoversi lungo il corso dell’Eufrate per poi assalire le città di Babilonia e Seleucia, ma le trovò deserte. Decise, allora, di attaccare direttamente Ctesifonte, la capitale arsacide, e riuscì a conquistarla nel gennaio del 198. Settimio assunse il titolo di Partico Massimo, ma evitò la completa conquista del territorio dei Parti e non riuscì, per ben due volte, ad espugnare la città di Hatra, forse per mancanza di decisione, come allude Dione Cassio, nel condurre l’attacco (LXXV, 11-12). Dopo aver subito pesanti perdite durante la ritirata, Settimio si diresse verso l’Egitto e organizzò parte dei territori conquistati nella nuova provincia della Mesopotamia (45). Nel 203 venne costruito a Roma l’arco di Settimio Severo per celebrare, nei quattro pannelli, gli avvenimenti fondamentali le due campagne contro i Parti (46). Intorno all’anno 214 d. C. Caracalla, figlio di Settimio Severo, si preparava a conquistare la Partia e nell’anno successivo a spostare più avanti la frontiera creata da suo padre. Dopo aver tentato senza successo di occupare l’Armenia, nel 216 d.C. chiese la mano della figlia di Artabano V, re arsacide, ma essendogli stata rifiutata usò questo evento come pretesto per occupare la Media, attaccare città e devastare le tombe dei sovrani partici. Per celebrare la vittoria furono coniate delle monete sulle quali compariva la scritta "Victoria Parthica"(47). L’occupazione non durò a lungo, perché a seguito dell’assassinio di Caracalla, pugnalato da un soldato per ordine del prefetto del pretorio Macrino, l’esercito romano cadde nello sconcerto e fu costretto a ritirarsi dalla Media a seguito del contrattacco condotto dall’esercito partico guidato da Artabano, al territorio della Mesopotamia romana. Lo scontro si risolse con una sconfitta dei Romani e il nuovo imperatore Macrino dovette pagare una somma considerevole per ottenere la pace. Nel 227 d.C. Artaserse, un vassallo dello stato partico, promosse una ribellione e partendo dalla Persia sconfisse e uccise Artabano V . La sua ascesa al trono segnò il trapasso dalla dinastia arsacide alla dinastia sasanide, ma per i Romani nulla sembrava cambiato perché continuarono a chiamare con il nome di Parthi anche i nuovi Persiani (48).

preso da Mario IERARDI (Estratto)

x gli appassionati dei Parti e delle monete antiche vada QUI

[Modificato da scipio rtw annibal 26/06/2005 11.34]


26/06/2005 11:45
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Bravo, veramente interessante [SM=x506627]
26/06/2005 11:59
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peccato ke quest'autore non tratti quasi x niente dei veri fondatori dell'impero partico....MitridateI e II....
mitridateI tra il 160 e il 140 a.c annette all'impero partico ke stava nascendo la perside,la characene,la babilonia,l'assiria a ovest,la gedrosia(e forse anke l'herat e il seistan..)inoltre egli non tocca seleucia,con il quale ottine una specie di accordo commerciale(anke se gli mette un imponente campo militare dall'altra parte del tigri),i parti in qsto periodo vengono accolti come i liberatori dal giogo seleucide,e i rifondatori dell'impero persiano!poi(verso il 123ac)arrivò mitridateII(ke uomo ke fù)egli ristabilisce l'ordine a ovest e mette a tacere le varie bande di beduini ribelli,ripristina la frontiera sull'oxo(riprendendosi la città di merv),occupa nuovamente herat e rende vassalloil sestan!grazie ai suoi successi il mondo occidentale si salva dalla incombente minaccia dei saka!inoltre conclude "affari" anke con l'imperatore cinese e pone il suo protetto tigrane sul trono d'armenia...(ke uomo)nel 92ac i romani giungono all'eufrate e mitridate gli manda ambasciatori con proposte di alleanza,il bravo testa di ***** di silla (sottovalutando il potere e la putenz militare partica)tratta gli ambasciatori alla stregua di servi e il gran re ne è così indignato da allearsi con altri 2 re dell'oriente!(+ tardi roma pagherà cara la sua arroganza).....ke uomini,i fondatori..si posson paragonare il I a Ciro,il II a Dario(fondatore ed esaltatore diciamo..)

27/06/2005 19:05
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LA BATTAGLIA DI CARRE
LA BATTAGLIA DI CARRE

Data: 9 GIUGNO 53 a.C.
Luogo: CARRE (Località del regno di Osroene; oggi Haran, in Turchia.)
Eserciti contro: ROMANI E PARTI
Contesto: CAMPAGNA DI CRASSO IN ORIENTE
Protagonisti:
MARCO LICINIO CRASSO (Proconsole e generale romano)
CAIO CASSIO LONGINO (Questore romano)
PUBLIO LICINIO CRASSO (Figlio di Marco Licinio Crasso)
SURENA (Generale e alto dignitario dei Parti)
SILACE (Governatore partico della Mesopotamia)

Accenni iniziali
Marco Licinio Crasso fu meno autorevole dei suoi due colleghi, Caio Giulio Cesare e Gneo Pompeo Magno, con i quali nel 60 a.C. strinse un accordo privato, il cosiddetto Primo Triumvirato. Infatti se Pompeo era diventato famoso per le sue imprese contro i Pirati e contro Mitridate VI Eupàtore, re del Ponto, e Cesare era in procinto di portare guerra ai Galli, Crasso non aveva intrapreso delle campagne militari personali; fu più che altro famoso per aver sconfitto Spartaco e i suoi ribelli durante le guerre servili nel 73 a.C.
Nel 55 a.C., per il trattato di Lucca, gli fu affidato il proconsolato della Siria. Lontano da quello che avveniva in Occidente (guerre di Cesare in Gallia, crescita del potere personale di Pompeo a Roma), lui cercò di consolidare la sua posizione cercando di ottenere l’intero controllo della Mesopotamia, regione chiave per i traffici con l’Oriente.
Giunto in Siria all’inizio del 54 a.C., Crasso rilevò le truppe e il comando del suo predecessore Aulo Gabinio, potendo così fruire di sette legioni; decise allora di passare l’Eufrate (fiume che divideva la Siria dall’Osroene, regno sotto protettorato romano) nei pressi della città di Zeugma e di portare guerra contro i parti, nemici per eccellenza di Roma; essi provenivano dal Chorassan, sotto il Mar Caspio, e possedevano un impero che, nei momenti di maggiore estensione, si estendeva dall’Eufrate all’Indo e aveva come capitale Seleucia, sul Tigri (in seguito la capitale diventerà Ctesifonte).
Il proconsole Crasso marciò quindi in Mesopotamia prima verso est, poi verso sud seguendo il corso del fiume Belik, senza trovare una grande resistenza, fatta eccezione per la città di Zenodozia, dove perse un centinaio di uomini. I parti erano in quel momento ancora impegnati in una lunga guerra civile e non reagirono: il governatore della zona, Silace, non si oppose all’avanzata romana e si diede alla fuga. Dopo aver messo di presidio circa 7000 fanti e 100 cavalieri alle città alleate, Crasso ritornò in Siria a svernare con il resto dell’esercito. Qui giunse anche il figlio, Publio Licinio Crasso, inviato da Cesare insieme a mille cavalieri galli in aiuto al padre.
Nella primavera del 53 a.C. Crasso era in procinto di ripartire per la Mesopotamia, quando gli giunsero ambasciatori dal re dei parti Orode, che aveva prevalso nella guerra civile degli anni precedenti, chiedendo spiegazioni sulla campagna militare dei mesi precedenti. Poi aggiunsero che Orode avrebbe perdonato Crasso se avesse confessato il vero motivo della spedizione, ovvero se era stata una guerra politica, o una guerra per fini personali. Non si arrivò a nessun accordo e Crasso li congedò dichiarando aperto il conflitto. Tra i romani vi erano opinioni differenti sul da farsi: il questore Caio Cassio Longino (uno dei futuri uccisori di Cesare) consigliò a Crasso di rivedere i suoi piani e di ascoltare il responso degli indovini. Crasso fu però rincuorato dall’arrivo del re d’Armenia Artavasde, giunto nel suo campo con circa 6000 cavalieri; questi incitò il proconsole e gli promise inoltre altri 10.000 catafratti (cavalieri corazzati) e 30.000 fanti, consigliandogli inoltre di far passare i suoi legionari per l’Armenia, dove l’esercito non avrebbe avuto difficoltà di approvvigionamento e, data la presenza delle montagne, avrebbe invece potuto mettere in difficoltà la grande forza dell’esercito partico, la cavalleria. Crasso accettò ben volentieri gli uomini fornitigli, ma preferì attaccare passando per la Mesopotamia, dato che voleva puntare direttamente sulla capitale Seleucia.
Passato l’Eufrate sempre nella città di Zeugma, Crasso si trovò di fonte a molti problemi legati al tempo atmosferico: una tempesta si abbatté sul ponte appena costruito e lo distrusse, mentre alcuni fulmini caddero sul luogo in cui doveva essere posto l’accampamento. Il giorno seguente avanzò lungo il fiume con sette legioni di fanteria pesante, con circa quattromila cavalieri e con altrettanti fanti leggeri. Venuto a sapere da alcuni esploratori che i parti erano fuggiti e la zona davanti a loro era deserta, Crasso incitò i suoi legionari e dimostrò il falso coraggio del nemico. Cassio però, in un altro colloquio con Crasso, lo invitò a ritirare le truppe dentro una città fortificata alleata, oppure a proseguire verso Seleucia seguendo il corso dell’Eufrate.

Mentre il console rifletteva su cosa fare, si presentò a lui un arabo di nome Abgaro, uomo molto falso, che aveva avuto in affidamento da Pompeo il regno di Osroene, e si era meritato la fama di filoromano; in questa circostanza però si comportò diversamente e, d’accordo con il re parto Orode, indusse Crasso a lasciare le sponde del fiume per recarsi in aperta pianura, dove i parti erano meglio preparati. Riferì inoltre che il re Orode aveva inviato contro di lui i generali Surena e Silace, mentre egli sarebbe rimasto inattivo. Ciò però era falso poichè il re Orode, mentre Surena e Silace si diressero contro Crasso, si diresse di persona contro Artavasde e invase l’Armenia.
Crasso si lasciò persuadere da ciò e lasciò la posizione originaria per seguire quella indicata da Abgaro: questi guidò dapprima i romani su percorsi favorevoli, ma poi cambiò itinerario, passando per zone molto più aride e secche. Quando arrivarono poi notizie sull’aggressione di Orode ai danni di Artavasde, che chiedeva anche aiuti, Crasso decise di non aiutarlo, ma prese in disparte Abgaro chiedendo spiegazioni su ciò che stava accadendo. Con caratteristica tattica adulatoria, Abgaro riuscì a calmare Crasso e lo convinse a seguire ancora i suoi piani per la battaglia decisiva.

La battaglia

Il 9 giugno del 53 a.C., Crasso era ormai pronto alla battaglia e inviò alcuni cavalieri in avanscoperta per spiare le mosse del nemico: molti di questi cavalieri però furono catturati e uccisi, mentre altri tornarono e riferirono che i parti stavano avanzando in gran numero. Crasso restò sbigottito da ciò e dispose l’esercito in formazione da battaglia: formò un quadrato a due fronti, ciascuno dei quali si estendeva per dodici coorti; presso ogni coorte piazzò uno squadrone di cavalleria. Affidò un’ala a Cassio e l’altra al figlio Publio, mentre egli si pose al centro. Avanzando in questo modo i soldati romani arrivarono fino al fiume Belik, nei pressi della città di Carre, dove si trovarono di fronte ai parti guidati dal generale Surena, coadiuvato dal governatore partico Silace: l’esercito partico era composto da circa 10.000 cavalieri e 1.000 catafratti, che a prima vista sembravano non molto numerosi (evidentemente molti erano nascosti tra le dune di sabbia).
Quando il generale Surena diede il segnale di combattimento, la pianura si riempì di urla terrificanti che spaventarono i soldati romani. I parti usarono questa tattica per scuotere l’animo del nemico e per gettarlo nel panico: così avvenne. La seconda mossa attuata dai parti fu un attacco frontale con la cavalleria corazzata, che era uno degli elementi peculiari del loro esercito: essa non riuscì a rompere lo schieramento romano ma, dando l’impressione di disperdersi e di arretrare, lo accerchiò. Crasso lanciò all’attacco la fanteria leggera che non riuscì ad avanzare molto ma, al contrario, dovette retrocedere rapidamente e si mescolò con la fanteria pesante, creando una grande confusione. Qui comparve il secondo elemento di forza dell’esercito partico, ovvero gli arcieri a cavallo: essi erano molto più mobili della cavalleria corazzata, e usavano un arco assai più potente di quello semplice; inoltre erano seguiti da un convoglio di cammelli che garantiva loro un continuo rifornimento di frecce.

Questo fu un grave colpo per i romani, poiché il loro esercito era essenzialmente costituito da legioni di fanteria, che prediligevano il combattimento corpo a corpo. Questi arcieri, tenendosi a distanza, cominciarono a scagliare i loro dardi e, poiché la formazione romana era molto compatta, non sbagliarono un colpo.
I soldati romani cercarono di resistere il più possibile, sperando che i parti finissero al più presto le frecce, per poi passare al combattimento ravvicinato; ma quando si videro arrivare nuovi cammelli carichi di frecce, Crasso mandò messaggeri al figlio Publio dicendo di costringere il nemico allo scontro prima di venire accerchiato. Il giovane allora, presi mille e trecento cavalieri, cinquecento arcieri e otto coorti di fanteria pesante, li condusse allo scontro. I parti dunque, volendo allontanare il giovane Publio dal padre per poi tendergli un’imboscata, finsero di fuggire: questi si lanciò all’attacco con la cavalleria, inseguito dalla fanteria, convinto di avere ormai la vittoria in pugno e di cominciare l’inseguimento del nemico; quando però si accorse che i parti fecero dietro front e si diressero in numero maggiore verso di loro, capì l’inganno. Fatto sta che i romani si fermarono, ritenendo che il nemico sarebbe giunto allo scontro, dato che era inferiore di numero: i parti lanciarono invece contro di loro i cavalieri corazzati che in breve tempo decimarono le truppe romane; Publio allora incitò i suoi all’attacco finale, muovendosi egli stesso insieme ai cavalieri galli, che riuscirono a scompigliare per un po’ la cavalleria partica.
Ma il clima caldo e torrido, al quale i galli non erano abituati, li costrinse alla ritirata insieme a Publio, ferito gravemente. Alcuni di essi però, nel cercare di fermare il nemico, finirono infilzati nelle lunghe aste partiche. Il giovane allora mandò alcune staffette al padre, chiedendo aiuto: la maggior parte di esse finirono però uccise. Insieme a Publio c’erano due greci, Ieronimo e Nicomaco, che tentarono di convincere il giovane a rifugiarsi con loro nella città di Icne, che si era schierata con i romani; Publio però non volle lasciare i suoi uomini, come un buon comandante è solito fare, e li congedò. In seguito, non essendo più in grado di combattere, ordinò al suo servo di ucciderlo.
I parti uccisero quindi i superstiti della cavalleria di Publio e tagliarono la testa al giovane: si diressero quindi contro Crasso in persona.
Appena ricevute le staffette inviategli dal figlio, Crasso divenne titubante, ma decise comunque di cercare di portare aiuto al figlio. In quel momento i parti attaccarono però con più tenacia e forza di prima e, alcuni di essi, portando la testa di Publio infissa su di un’asta, chiesero per scherno chi fossero i genitori di costui, giacché non era possibile che un uomo così valoroso potesse essere figlio di Crasso. Quella vista prostrò gli animi dei soldati ma Crasso dimostrò di essere all’altezza della situazione e incitò i suoi soldati al combattimento, dicendo solo che il lutto per la morte del figlio era solo suo.
La maggior parte dei soldati però non lo ascoltò e, quando fu dato loro l’ordine di alzare il grido di guerra, emisero solo un debole urlo. Quando si arrivò al combattimento, la cavalleria partica manovrò obliquamente, mentre i soldati delle prime file, usando le lunghe aste, costringevano i romani ad ammassarsi in un piccolo spazio, dove poterono finirli con le frecce o con le lunghe lance.

Dopo la battaglia

Sul far della sera i parti si ritirarono, dopo aver detto a Crasso che gli concedevano una notte sola a meno che egli non volesse conferire con il re Orode di sua spontanea volontà. Essi si accamparono nei pressi dell’accampamento romano, dove la situazione era assai grave: nessuno si curò dei feriti e della sepoltura dei morti: Crasso era in una situazione di profondo abbattimento e gli ordini sul da farsi furono quindi presi da Cassio e dal legato Ottavio, che radunarono le coorti e decisero di partire al più presto per rifugiarsi nella città di Carre, abbandonando però i feriti. Questi ultimi, avendo capito che tutti li stavano abbandonando, gridarono e chiesero aiuto. Ciò creò molto scompiglio tra i soldati superstiti, che credettero di essere attaccati dal nemico; fatto sta che verso la mezzanotte riuscirono ad arrivare a Carre soltanto trecento cavalieri al comando di un certo Ignazio. Quest’ultimo, giunto alle mura della città, ordinò di avvisare il loro comandante Caio Coponio, dicendo chi era. Riuscì così a mettere in salvo il suo reparto, ma fu accusato di avere abbandonato il suo generale: Coponio allora andò personalmente incontrò a Crasso, che stava giungendo, e lo scortò nella città.
I parti si accorsero della fuga notturna dei romani, ma non intervennero: ma il giorno successivo entrarono nell’accampamento e massacrarono tutti i feriti che erano stati abbandonati; poi con la cavalleria catturarono moltissimi che vagavano per la pianura. Un gruppo di quattro coorti, guidato dal legato Vargunteio, fu accerchiato in una strettoia e venne distrutto, fatta eccezione per venti uomini che, ammirati dai parti per il loro coraggio, furono fatti fuggire a Carre.
Surena non aveva informazioni precise su chi si fosse asserragliato a Carre: secondo le voci riferitegli Crasso e i suoi luogotenenti erano fuggiti oltre, e nella città aveva trovato rifugio solo l’esercito. Quindi, deciso a sapere chi vi fosse nella città, inviò un uomo con l’incarico di chiedere se Crasso o Cassio erano disposti a trattare la resa. Crasso cascò nella trappola e Surena inviò allora nel campo romano alcuni arabi che riconobbero Cassio, e riferirono che il loro comandante era disposto a concederli la vita a patto che abbandonassero la Mesopotamia. Il proconsole aspettò allora che tornassero i messi per riferirgli il luogo e l’ora in cui si sarebbe dovuto incontrare con Surena per trattare la resa; invece, dopo poco tempo, si vide avanzare verso Carre l’intero esercito dei parti, che chiese ai cittadini di consegnare loro Crasso.

Quest’ultimo decise di affidare la sua sorte e quella dei suoi soldati ad un certo Andromaco, che li avrebbe dovuti condurre in salvo durante la notte. Ciò avvenne in ordine sparso e, forse per il fatto che Andromaco voleva tradire lo stesso Crasso, il giorno dopo l’esercito romano si trovava ancora a vagare attorno a Carre. Cassio si era insospettito ed era tornato nella città mesopotamica, da dove poi era ripartito per la Siria con circa 500 cavalieri, mentre il legato Ottavio con circa 5000 uomini si diresse verso i monti dell’Armenia. Crasso con il resto dell’esercito (quattro coorti) distava molto poco dal nemico, con il quale venne presto in contatto. Avendolo visto in difficoltà Ottavio si mosse per soccorrerlo. Intanto Surena temeva di non riuscire a prendere la posizione in cui si trovava Crasso prima di notte e chiese di poter trattare direttamente con quest’ultimo; così lasciò andare alcuni prigionieri romani, che erano stati plagiati dai parti sulla loro magnanimità e sul loro desiderio di pace. Essi, tornati da Crasso, erano convinti di ciò che era stato loro detto dai parti, mentre il proconsole era assai dubbioso. Quindi cercò con tutti i mezzi di far capire ai suoi soldati che si trattava di un tranello e che sarebbe stato sufficiente resistere per poco tempo per raggiungere la salvezza. Ma i soldati non accettarono la proposta e iniziarono a dargli del vigliacco e dell’irresponsabile: arrivarono addirittura a minacciarlo e Crasso non poté far altro che andare dal nemico per trattare. Secondo Plutarco Crasso, voltandosi indietro mentre si dirigeva da Surena, disse:
“Ottavio, Petronio, e voi comandanti romani qui presenti, vedete che la mia strada è segnata e siete testimoni che subisco un’oltraggiosa violenza. Ma dite a tutti gli altri, se sopravviverete, che Crasso è morto per l’inganno dei nemici e non per il tradimento dei suoi concittadini”.
In seguito non si sa bene cosa avvenne: ci furono delle schermaglie verbali tra Crasso e Surena, poiché quest’ultimo lo invitò a farsi precedere da alcuni soldati per appurare che i parti fossero disarmati, e il proconsole rispose che se avesse avuto interesse della propria vita non si sarebbe fidato dei parti. Surena allora gli fece portare un cavallo, dicendo che era un dono del re Orode, e aggiunse che per la firma della pace bisognava portarsi verso il fiume rammentando che Pompeo in passato non aveva mantenuto fede ai patti. A questo punto Crasso fu issato a forza sul cavallo che, frustato, sarebbe partito al galoppo se Ottavio non l’avesse fermato. Il legato sguainò la spada ad uno dei nemici e uccise un soldato partico, per essere subito dopo colpito lui stesso: nacque così una piccola battaglia dove tutti i romani che cercarono di difendere Crasso furono uccisi. Quest’ultimo sembra sia stato ucciso da un parto di nome Exatre.
Moltissimi soldati romani furono fatti prigionieri e trasportati sulla frontiera orientale dell’impero partico, a Merv; altri invece tornarono con Cassio in Siria, dove poterono allestire due legioni per la difesa della provincia. La testa e la mano di Crasso finirono sulla tavola del pranzo di nozze tra la sorella del re d’Armenia e il figlio di Orode, che sancì la riconciliazione tra i due popoli.
Surena aveva intanto allestito un grande trionfo a Seleucia e aveva vestito un soldato romano somigliante a Crasso con abiti femminili, per farlo schernire da tutta la città. Il re Orode però, invidioso della popolarità del suo generale lo fece uccidere dopo poco tempo.
Per alcuni anni dopo la battaglia di Carre i parti, al comando del figlio di Orode Pacoro, tentarono di invadere la provincia romana di Siria, ma vennero sconfitti da Cassio ad Antigoneia nel 40 a.C. e in seguito dal proconsole Publio Ventidio Basso nel 39 e 38 a.C.
La disfatta dei romani a Carre si può brevemente spiegare in questo modo: Crasso era un buon funzionario e un ottimo amministratore delle finanze, ma forse non un perfetto generale; fu forse troppo bramoso di giungere a Seleucia, non valutando il territorio e soprattutto l’armamento dei parti. Infatti a Carre i romani si trovarono di fronte ad un nuovo modo di combattere (combattimento a distanza con gli arcieri a cavallo o con la cavalleria pesante), diverso da come erano sempre stati abituati: si sa infatti che la forza dominante dell’esercito romano era lo scontro frontale che a Carre non si verificò in quasi nessun momento della battaglia. Per concludere possiamo dire che Carre è stata si una grande sconfitta, ma certo Roma non si è lasciata scoraggiare da ciò: infatti molti dopo Crasso hanno cercato di invadere la Mesopotamia, alcuni riuscendovi altri no, e questo dimostra come l’Urbe sia sempre stata la città coraggiosa per eccellenza.

FONTI:
- PLUTARCO, Vite parallele, Nicia e Crasso, a cura di D. Manetti, Milano, Rizzoli 1987.
- ANDREA FREDIANI, Le grandi battaglie di Roma antica, Roma, Newton e Compton 2002.

[Modificato da scipio rtw annibal 27/06/2005 19.05]


28/06/2005 11:51
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quanta gente...
wow..pare che i parti non riscuotano il favore del popolo^^

05/07/2005 12:44
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PEr me è stato un errore di Adtiano abbandonare la Partia appena conquistata.. Dopo tutto come ho abbiamo letto, il problema partico è rimasto anche dop obbligando i romani
alla "semi-conquista" del regno e a guerre dispendiose più volte...

Dopo tutto una totale occupazione e romanizzazione dell aprtia avrebbe fruttato non pochi denari all'imepro.. Accesso diretto alle INdie e alla Cina..Avrebbe cambaito le soprti del grande impero..
LA sua conquista sarebbe stata ben più importante delal Dacia o delal germania...

Questa decisione dell'imperatore per me è stato un grave errore nella storia romana...

Come molti altri...




05/07/2005 12:57
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ritengo che la totale conquista della partia fosse impresa assai difficile..bisogna tener conto del gran numero di ribellioni che doveva gestire l'impero in quel periodo,e provar a prendere la partia voleva dire avventurarsi con un esercito nei loro territori,i parti potevan lasciar benissimo entrare un'armata,minacciare la carica dei catafratti costringendo i romani a schierarsi,e poi farli a pezzi con gli arcieri a cavallo finchè la formazione romana non si apriva lasciando spazio alla carica della cavalleria pesante....qundi dubito che qualsiasi imperatore aveva così tanta voglia di marcire nei deserti con la sua armata aspettando di esser fatto a pezzi....certo,a contatto i parti potevan venir facilmente sconfitti,ma secondo me la soluzione migliore la trovò augusto che negoziò con loro favorendo il commercio..così entrambi si arricchirono...

05/07/2005 13:40
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Be se L'esercito romano ha sconfitto più volte quello partico significa che aveva una superiorità tattica e militare!

Dopo tutto avrebbero dovuto resistere magari qualche anno come successe in gallia per poi romanizzarla comletamente..

Acnhe se l'operazione avrebbero richiesto molte spese, i vantaggi anceh economici della totale conquista sarebbero stai enormi!!




05/07/2005 13:56
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non ne sarei così certo...bisogna contare che i parti erano un popolo abbastanza pacifico,e intrpresero rapporti commerciali con la cina,se i romani avrebbero preso i loro territori dubito che avrebbero continuato sulla stessa strada..inoltre non era certo facile controllare un impero di quelle dimensioni...con l'annessione della partia sarebbe stata una situazione ingestibile

07/07/2005 01:24
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ddaai..suvvia,ke poi mi monto la testa[SM=x506630] e perdo la ragione[SM=x506643] [SM=x506643] [SM=x506643] [SM=x506633] [SM=x506648] :sm1 :sm1 [SM=x506638] [SM=x506638] [SM=x506642]

09/07/2005 04:12
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Centurio Primus Pilus
come?
scusate l'ignoranza, ma sarei molto curioso di sapere con quale tattica militare i romani riuscirono a battere i parti.
sinceramente conosco solo la battaglia di harran, ma li i romani le presero.
grazie.


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10/07/2005 18:26
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dunque,i parti riuscivano a tener testa ai romani x lo scarso uso di cav leggera ke facevano,in poke parole appena un esercito romano entrava in territorio parto i parti minacciavano la carica con i catafratti,e i legionari eran costretti a mettersi in posizione,quindi arrivavano gli arcieri a cav dei parti ke(grazie anke alla maggior gittata dell'arco)li falciavano dalla istanza,quando i romani eran stufi di prender frecce in testa rompevano i ranghi e attaccavano,e allora i parti mandavano alla carika la cav pesante.ma i romani nn eran propriamentre degli stupidi,quindi fecero alla svelta a skierare anke loro reparti di cavalleria leggera,ke disperdeva gli arcieri e costringeva i catafratti(senza supporto degli arcieri)a ripiegare.i sasanidi poi unirono i catafratti e gli arcieri a cavallo in un unica unità,ma questa è un'altra storia[SM=g27963] [SM=g27963] [SM=x506627]

10/07/2005 22:50
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Centurio Primus Pilus
difatti
immaginavo l'utilizzo della cavalleria leggera, tuttavia mi rimane difficile spegare successi in campo aperto, se mai ce ne sono stati.
comunque immagino che sta cavalleria fosse reclutata più o meno in loco, oppure all'epoca i romani la utilizzavano normalmente?
ciao e grazie.


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10/07/2005 23:24
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i romani nn facevano gran uso di cavalleria,e quella che avevano era per lo più mercenaria o alleata,a carre i cavalieri galli non riuscirono a prevalere x il clima troppo diverso dalle loro regioni d'origine,qndi penso ke gran parte della cavalleria leggera sia stata reclutata lì

28/10/2006 23:32
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davvero interessanti..sei un grande!!!!!!!potresti darmi informazioni sui traci e le loro usanze anke immagini e ricostruzioni fotografiche?????
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