La battaglia di Canne

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maurelio1000
00martedì 5 giugno 2007 16:06
Ero in cerca di qualche racconto di battaglie famose e su wikipedia ho trovato qualcosa che mi ha colpito, provate a leggere se ne avete voglia dato che è un po lungo.


La Battaglia di Canne fu più la grande battaglia della seconda guerra punica, combattuta tra Romani e Cartaginesi. Si svolse il 2 agosto del 216 a.C. con la partecipazione di 80.000 Romani, suddivisi in 8 legioni. Il luogo della battaglia è controverso: sebbene la gran parte degli storici lo identifichino con Canne nell'attuale agro della città di Barletta, in Puglia, nei pressi del fiume Ofanto, alcuni studiosi - sulla base dei documenti storici e dei rilevamenti archeologici - sostengono sia da identificarsi più a nord, sulla riva destra del fiume Fortore. Ad ogni modo la battaglia rappresenta uno dei migliori esempi di accerchiamento tattico completo della storia militare. In questa battaglia, vinta dai Cartaginesi comandati da Annibale, perirono 50.000 Romani, tra i quali lo stesso console Lucio Emilio Paolo, e la maggior parte di quelli che sopravvissero, quasi tutti feriti, fu fatta prigioniera. Solo alcuni, rimasti di guardia all'accampamento, fuggirono nella città di Canosa. Annibale perse solo 8.000 uomini[1], per la maggior parte Galli.
Le fasi della battaglia
I Romani - che procedettero dopo la sconfitta all'ultimo sacrificio umano della loro storia[2] - erano comandati quel giorno dal console Gaio Terenzio Varrone che li schierò a battaglia nonostante il parere contrario dell'altro console, Lucio Emilio Paolo. Annibale pose al centro dello schieramento i contingenti degli alleati galli ed iberici, disponendoli a formare un arco proteso in avanti. Lo scopo di questa particolare disposizione era quello di rendere meno compatta la massa d'urto dei Galli, favorendo così i Romani nello scontro diretto per poi farli cadere in un'imboscata.
I Romani - due terzi dei cui effettivi erano costituiti da inesperte reclute[3] - si erano disposti in uno schieramento molto compatto, costretti a questo anche dalla natura del terreno, con appena un chilometro e mezzo di fronte. Ciò pose le basi per la vittoria di Annibale limitando la loro mobilità. Alle ali stava la cavalleria, a nord-ovest quella romana (2.400 cavalieri) e a sud-est quella alleata (3.600 cavalieri). Altre circostanze sfavorevoli ai Romani erano una leggera pendenza del terreno in favore dei punici e il vento contrario.
La disposizione delle truppe operata da Annibale prevedeva che i Romani avrebbero tentato di sfondare il centro, tenuto da 19.000 tra Galli ed Iberici, approfittando della schiacciante supremazia numerica (55.000 legionari).
Come Annibale aveva previsto, i Galli presto dovettero soccombere e il centro iniziò a cedere. Ma, nel frattempo, la sconfitta romana si stava consumando sulle ali. Annibale, infatti, aveva disposto le sue truppe di cavalleria in una formazione asimmetrica: un'ala (a sud-est) di cavalleria numida di 3.600 unità con compiti di contenimento; l'altra, a nord-ovest di cavalleria pesante di 6.500 cavalieri con compiti di sfondamento, creando così una netta supremazia numerica e tattica sul fianco ovest, dove tra l'altro la cavalleria romana era pressata tra il fiume e le truppe romane in avanzata.
Battaglia di Canne 216 a.C - Distruzione dell'esercito romano
La cavalleria pesante di Annibale compì tre cariche: con la prima distrusse la cavalleria romana sull'ala ovest, convergendo poi sulla cavalleria alleata sull'ala est e sgominandola; infine, dopo essersi riunita alla cavalleria numida, chiudendo la tenaglia con un attacco alle spalle della massa della fanteria romana. Vale la pena di dire che, prima dell'inizio della battaglia, un contingente di cavalleria numida, che contava all' incirca 300 uomini, fece finta di arrendersi ai legionari romani (sotto ordine del medesimo Annibale) per farsi condurre nelle retrovie come prigioniera. Quando la battaglia raggiunse l'apice, gli stessi "prigionieri", approfittarono dello sgomento per tirare fuori dalle vesti le spade corte fino ad allora celate ai romani, cominciando a far strage tra le ultime file fino all'arrivo della cavalleria.
Contemporaneamente, la fanteria d'élite africana - che, come descrive lo storico Livio nell'Ab urbe condita, era equipaggiata con armi ed armature romane requisite dai mercenari dopo le battaglie del Trebbia e del Trasimeno - si trovava ai due lati estremi dello schieramento di fanteria cartaginese. Quasi senza sforzo riuscì ad operare un cambio di fronte che la portò a chiudere i lati dello schieramento romano, completando così l'accerchiamento.
A tutto ciò s'aggiunse un tranello abilmente preordinato dal geniale condottiero cartaginese, che rischiò di esplicare i suoi rovinosi effetti per la formazione romana, uno dei cui consoli, Gaio Terenzio Varrone, intaccò il proprio prestigio di comandante agli occhi per la condotta tenuta verso i suoi sottoposti.
L'accampamento cartaginese fu infatti apparentemente abbandonato, volendo Annibale invogliare i soldati romani a procedere al saccheggio. Un richiamo alla prudenza fu operato dal console Lucio Emilio Paolo, messo sul chi vive da un'attenta esplorazione dell'accampamento condotta dal suo sottoposto Mario Statilio coi suoi cavalieri lucani. Questi fu insospettito dall'implausibilità della presenza di troppi oggetti di valore (vasellame d'argento) che gli parvero artatamente messi in bella vista per invogliare i soldati romani ad abbandonarsi a una disordinata e dissennata azione predatoria, e riferì al console che, a suo parere, si trattava di un'insidia evidente.
La bramosia dei soldati romani fu però tale da indurli a gridare che «se non veniva dato il segnale, essi sarebbero andati senza comandanti» (ni signum detur, sine ducibus ituros). Varrone, invece di procedere severamente nei confronti di questo atto di gravissima indisciplina, fu indotto a raggiungere i suoi uomini che rifiutavano di riguadagnare il proprio accampamento malgrado il presagio negativo dei polli che l'esercito s'era portato dietro. Fortuna volle che due schiavi, uno di Formia e uno sidicino (attuale zona di Teano), sfuggiti ai numidi che li avevano precedentemente fatti prigionieri, riferirono che l'esercito di Annibale era appostato in agguato dietro le vicine alture ma, come osserva Tito Livio, ormai la «sbagliata arrendevolezza» (prava indulgentia ) di Varrone «aveva indebolito in primo luogo la sua autorità presso i soldati» (primum apud eos... maiestatem solvisset ).
La battaglia fu un massacro. Come riferì lo storico Livio i Cartaginesi si fermarono solo quando «furono spossati dal far strage più che dal combattere» (prope iam fessis caede magis quam pugna adiungit ).
Era dai tempi della Battaglia del fiume Allia, che precedette il sacco di Roma da parte dei Galli di Brenno nel 386 a.C., che un esercito romano non subiva una disfatta tanto catastrofica. Tito Livio racconta che, al termine della battaglia, gli anelli d'oro strappati dai vincitori alle dita dei cadaveri degli equites equo publico costituirono un'agghiacciante quanto eloquente collinetta oscillante da 1 a più di tre "moggia", vale a dire da 9 a più di 27 litri volumetrici. Magone, fratello d'Annibale, s'incaricò di portarli a Cartagine, versandoli nel vestibolo della curia cartaginese.
Celta berserker
00martedì 5 giugno 2007 16:30
Maurelio questa discussione va aperta in Historia e non in Senatus.
In secondo luogo, devi postare il link della fonte, non tutto il documento. [SM=g27960]
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